Opinioni

Kabul. "Io, sotto il burqa trattenuta dai taleban (uomini che non conoscono le donne)"

Lucia Capuzzi, inviata a Kabul martedì 9 agosto 2022

Combattenti taleban

Questa non è un’intervista. È la cronaca di un incontro, avvenuto a causa di un 'equivoco' sui permessi e andato avanti per oltre nove ore. Un tempo in cui chi scrive ha avuto l’opportunità di osservare da molto vicino, seppure sotto la rete cerulea di un burqa, alcuni di quegli ex fantasmi celati per due decenni dalle gole pietrose dell’Afghanistan e apparsi d’improvviso, un anno fa, in carne ed ossa, nel cuore di Kabul.

I taleban, uno dei movimenti più impenetrabili dell’islamismo radicale, hanno fatto della segretezza una garanzia della loro ostinata sopravvivenza. Le lotte tra fazioni – che ci sono – si consumano al riparo da occhi e orecchie estranei per non incrinare il mito della fedeltà incondizionata al capo supremo. Attualmente si tratta dell’emiro Hibatullah Akhundzada, tanto sfuggente che qualcuno lo dà per morto da anni a causa del rifiuto a comparire in pubblico.

Gerarchia, regole interne e intenzioni politiche degli esponenti della formazione sono centellinate e elargite in frammenti di verità tanto piccoli da rendere quasi impossibile ricostruire un mosaico leggibile. Ancor meno si sa delle abitudini e modi di vita taleban al di fuori dei rituali di ordinanza. Ecco perché condividere lo spazio con un gruppo di funzionari di vario livello lontano dai riflettori è, comunque, un’esperienza unica per chi la vive. Tanto più se si tratta di una donna, con cui difficilmente gli studenti coranici si approcciano.


Il Kalashnikov sempre in mano,
le preghiere e quel misto di distacco e curiosità
per la presenza velata che hanno di fronte:
«Credi in Dio? Perché hai perso tempo a studiare?




Nell’enorme stanza del palazzo del governatore di Lashkar Gah, nel sudovest del Paese, ci sono nove uomini. I più anziani - di età e di servizio - siedono sui divani di pelle nera. Gli altri, i giovani, si distribuiscono sui tappeti, con le gambe incrociate, secondo la tradizione afghana. Si dispongono dallo stesso lato: un tavolo – elegante e nuovo come il resto del mobilio – li separa dall’entità avvolta nel burqa azzurro. Nessuno di loro indossa l’uniforme militare: niente mostrine, niente nomi, niente presentazioni. Tutti, invece, sfoggiano la 'divisa' taleban, mutuata dalla tradizione pashtun: tunica e pantaloni candidi e turbante nero da cui molti fanno spuntare una massa corvina lunga fino alle spalle. Il dettaglio sorprende perché nell’Afghanistan dell’Emirato – così si chiama il regime al potere dal 15 agosto 2021 – è proibito ai maschi portare i capelli sotto l’orecchio. Agli studenti coranici, però, nella pratica, è consentito in omaggio al costume degli uomini pashtun di danzare l’'atana' (ballo popolare), agitando le folte chiome.

Ovviamente ognuno tiene ben in mostra il pesante Kalashnikov. Altri fucili sono lasciati in vista sul tappeto, mescolati alle tazze ormai vuote di tè, a ridosso della scrivania dove s’innalza superba la bandiera dell’Emirato: bianca, per testimoniare la purezza del loro fervore, con impressa la ' shahadah', la dichiarazione di fede secondo cui Allah è l’unico Dio e Maometto il suo profeta, uno dei cinque pilastri dell’islam. A lungo, gli uomini chiacchierano e scherzano come se non ci fosse nessun altro nella stanza. Senza volto – perché deve stare coperto, come le è stato ordinato –, la donna smette di esistere.

La luce accecante di fine mattinata offusca le sagome degli alberi che spuntano dalle finestre. Fuori c’è un giardino che, indifferente agli eterni 47 gradi, cresce rigoglioso. Merito anche delle reclute taleban che se ne prendono cura, nelle pause tra una missione e l’altra. I loro vestiti sono meno curati dei nove funzionari ma si trovano, comunque, più in alto nella rigida scala gerarchica delle semplici guardie dei check-point che presidiano le strade con tuniche sbrindellate, una sciarpa buttata sulle spalle o sulla testa e un fucile sempre carico. I taleban- giardinieri spostano la pompa di plastica da un’aiuola all’altra con lentezza esasperante. A tratti, si fermano per salutare calorosamente i nuovi arrivati e prendersi in giro, come rivela il linguaggio universale del corpo. Allora i volti si fanno sorridenti e nelle loro fattezze di ragazzi feroci riappaiono gli adolescenti che non sono mai potuti essere.

I taleban, scrive il loro più profondo conoscitore, il giornalista pachistano Ahmed Rashid, sono ciò che la guerra – o meglio le innumerevoli guerre in atto da 43 anni – ha rigettato, relitti depositati dal mare sulla spiaggia della storia. Orfani di padri, uccisi in una sequela senza fine di combattimenti, e soprattutto di madri. Le hanno perse nei raid degli occidentali o, il più delle volte, per farli sopravvivere, queste ultime, rimaste vedove e senza mezzi, hanno dovuto affidarli alla madrassa, lontano da sorelle, zie e cugine che popolano, seppur in posizione subordinata, la conservatrice società pashtun. Uomini cresciuti senza donne, la cui presenza ora viene vissuta con un misto di minaccia e curiosità.

Le ore scorrono lente nella stanza di Lashkar Gah svelando appieno il significato della tagliente frase di un detenuto di Guantanamo: «Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo». Di tanto in tanto, la suoneria di un cellulare sfida il bando totale della musica. Paradossale che a infrangere il divieto siano proprio i suoi custodi. Nessuno, però, ci bada. I funzionari taleban continuano a scambiarsi battute fra loro. A un certo punto uno tira fuori da una scatola un nuovo paio di scarpe da ginnastica e se le prova, chiedendo un consiglio. Tra loro c’è il tipico cameratismo delle confraternite studentesche maschili.

L’occasione per osservare a lungo
questi ex-'fantasmi' che dalle gole dell’Afghanistan
lo scorso anno sono comparsi a Kabul:
pesa in loro anche il non aver avuto rapporti familiari
lla fine, senza più presenza femminile,
la stanza torna esclusivo territorio maschile
Una metafora del Paese oggi


Pian piano, quando gli altri sono distratti, uno dei funzionari anziani si avvicina al burqa per offrirle acqua, sussurrando qualche frase in inglese: «Puoi rilassarti, noi garantiamo la tua sicurezza. Per questo non facciamo viaggiare le donne da sole».

L'arrivo di quello che poi si rivelerà il capo dell’intelligence di Lashkar Gah fa calare un momentaneo silenzio. Il burqa è al centro dell’attenzione ma solo per confermare ciò che già sanno. Mentre il dialogo formale procede attraverso un interprete reclutato per l’occasione, nella stanza gli altri taleban riprendono a chiacchierare per conto proprio.

Alle 19.50 scattano in piedi come un solo corpo. È il momento della preghiera, il resto può attendere. I mobili vengono spostati, le sciarpe buttate per terra, i Kalashnikov posati, finalmente. «Tu stai seduta », viene ordinato al burqa. Poi, un taleban dai capelli bianchi canta i versi dell’orazione con tono rauco e gli altri ripetono le formule rituali. Alla conclusione, il colloquio riprende. Nella pause infinite tra domande e traduzione, il burqa vorrebbe palesarsi con l’espressione del volto ma non può farlo. Solo alla fine, quando la conversazione si fa più cordiale, l’interprete la invita a scoprirsi la faccia perché «voi occidentali non siete abituate e magari lo trovi scomodo».

Allora l’atmosfera comincia a cambiare. Uno dopo l’altro i nove iniziano a lanciare qualche sguardo fugace ma, appena scoperti, abbassano gli occhi. Si parlano all’orecchio e ridacchiano. Uno si sente in dovere di precisare: «Non ridiamo di te, sono cose nostre». Un altro esce dalla stanza e torna con un grande vassoio d’uva. Con il Kalashnikov in una mano e nell’altra il bicchiere, offre il tè all’ex donna senza volto. «Perché non hai figli?», «Dove è Milano?», «Perché hai perso tanto tempo a studiare?», i più arditi pongono domande, gli altri ridono parlottando con il vicino. «Credi in Dio? Davvero sei cattolica? E puoi stare così?», dice, indicando la foto nel cellulare in cui la donna appare insieme a degli amici e amiche con i capelli sciolti e un abito senza maniche. La scena si protrae fino al congedo. Svuotata dell’unica presenza femminile, la stanza torna esclusivo territorio maschile. Una buona metafora dell’Afghanistan dei taleban. Uomini che magari non odiano le donne. Semplicemente non le conoscono.