Il commento. Navalny, la vera spina nel fianco del Cremlino, che lo voleva in silenzio
Alexeij Navalny con la moglie
Era colui che non si può citare. Non soltanto il presidente Putin evitava accuratamente di pronunciare il suo nome, ma a tutto lo staff del Cremlino, per quanto si racconta, era proibito evocare la sua figura, più che scomoda per il sistema di potere che domina la Russia. All’inizio erano stati i soldi, e non la politica, a creare la frattura tra il putinismo e Alexeij Navalny, trovato morto nella colonia penale di massima sicurezza in cui era rinchiuso da alcuni mesi.
L’oppositore numero uno dello Zar Vladimir, 47 anni e una lunga storia di militanza, era stato infatti a lungo in sintonia con il nazionalismo post-sovietico. Avvocato, dopo gli esordi sulla scena pubblica, fu espulso dal partito liberale Yabloko per le sue posizioni estreme e in seguitò si segnalò per l’approvazione all’attacco contro la Georgia del 2008 e all’invasione della Crimea nel 2014. Nel frattempo, aveva definito i migranti e le popolazione caucasiche con epiteti insultanti, chiedendone l’espulsione. Niente di diverso dal Putin pensiero, tanto che nel 2021 Amnesty International sollevò dubbi sulla “definizione di Navalny come prigioniero di coscienza a causa di commenti da lui fatti in passato, che possono equivalere a discorsi d’odio che costituiscono istigazione alla discriminazione, alla violenza e all’ostilità”.
I prigionieri di coscienza sono coloro che vengono privati della propria libertà solo a causa delle loro opinioni e il dissidente-oppositore numero 1 di Mosca lo era diventato da quando aveva cominciato a denunciare sistematicamente la corruzione del regime, le ruberie, gli arricchimenti personali, gli sprechi di denaro e risorse pubbliche. Tutto veniva documentato con dovizia di particolari – documenti e immagini – diffusi sui siti web del suo gruppo, ormai diventato forza sociale e politica con notevole seguito nel Paese e, quindi, minacciosa per Putin. Di qui, l’esclusione dalle elezioni nel 2018 per vicende giudiziarie piuttosto fumose.
Seguì una serie di processi, condanne, l’avvelenamento in Siberia con un agente nervino (e cure d’emergenza in Germania), il ritorno in patria, la denuncia-video del suntuoso “palazzo di Putin” e la sentenza più pesante che l’ha messo fuori gioco fisicamente, ma non annullato la sua influenza. Tre giorni fa stava bene, dicono i suoi collaboratori. È stata una trombosi improvvisa, dicono le autorità carcerarie. La verità sarà difficile da conoscere.
Di certo Navalny è stato perseguitato e sottoposto a condizioni durissime e umilianti, che avrebbero fiaccato qualsiasi organismo. Figura non cristallina nel suo percorso complessivo (anche se poi si era spostato su posizioni più liberal, compreso il sì alle unioni gay), l’ex giurista cresciuto nelle zone militari offlimits dell’Urss, negli ultimi anni aveva incarnato l’unica, realistica alternativa al blocco autoritario del Cremlino, ricevendo il pieno appoggio dell’Occidente democratico, che ora punta il dito contro Putin. Lo "zar" che si appresta a ricevere in marzo un nuovo mandato nelle urne, senza alcun avversario a contrastarne l’egemonia.