Tobruk e il costante dimenticare. Il naufragio in Grecia e quei bambini dentro l'abisso
Che un vecchio peschereccio con 750 anime a bordo stesse arrancando verso la Grecia, col mare agitato, lo si sapeva da martedì. Si sapeva che era salpato da Tobruk, diretto in Sicilia, e che il maltempo ne aveva deviato la rotta. Dalla nave avevano telefonato gli stessi passeggeri, la segnalazione era arrivata ad Alarm phone, anche un aereo Frontex li aveva avvistati. Erano ormai in acque Sar greche. Quindi, alle autorità greche era stato girato il messaggio. Competenza loro, il soccorso.
Poi, non si capisce esattamente. Per la Guardia Costiera greca il peschereccio non era in difficoltà, e da bordo l’intervento veniva rifiutato. Per lo stesso motivo dei mercantili in zona non sarebbero intervenuti. Ma, nella sera di martedì, il motore si blocca, la nave è in balia del mare agitato. In extremis un mezzo di soccorso greco avrebbe lanciato una fune per il traino, e proprio allora il peschereccio si è ribaltato. Come sia andata esattamente bisognerà accertarlo. Intanto di accertato ci sono 78 morti e 104 superstiti, e quasi 600 “dispersi”, si dice così. Ma i medici greci che curano gli scampati sentono insistentemente parlare di bambini: dove sono i bambini, che fine hanno fatto i bambini. Perché, testimoniano i vivi, i bambini, cinquanta forse, o cento, li avevano messi, come pare si usi, nella stiva, con le mamme, e costretti all’immobilità: zavorra, a tenere in equilibrio quel naviglio disgraziato. E dunque quei cinquanta o cento sono morti con le mamme, senza potersi nemmeno muovere. In quel punto il Mediterraneo è profondo, dicono, 5000 metri. Quei bambini, per sempre, in un abisso.
Non riesci a non pensare agli interminabili istanti nel buio in una stiva, dove già da due giorni era finita l’acqua potabile. Avranno sentito, da là sotto, gli elicotteri, i motori delle motovedette: avranno sperato, “ecco, vengono a salvarci”.
Ma gli elicotteri, i motori si allontanavano. L’urto tragico della nave capovolta, l’acqua che ruggendo si riversa nell’abitacolo, le urla. Pochi secondi, poi silenzio dalla stiva, mentre lo scafo marcio affonda. Nemmeno un bambino, fra i 104 superstiti.
La competenza, possiamo dirci, era della Grecia. Non è stata colpa nostra. Eppure il resoconto di ciò che è accaduto a Pylos, neanche due mesi dopo Cutro, ti mette addosso una sotterranea paura. Non per quelli che ormai sono morti. Ma per noi, Europa, che dai nostri aerei sappiamo quando partono e dove fanno rotta, quelle imbarcazioni stracariche: e tuttavia, ancora una volta, quegli uomini li abbiamo lasciati morire. Davvero è impossibile, nell’era della AI, Intelligenza artificiale, usare almeno la nostra per fare sì che la gente in fuga dalla guerra, dalla fame, arrivi viva? Davvero è impossibile per l’Unione europea concertare almeno soccorsi veri e immediati? O, in verità, di quei morti non ci importa niente?
Non è certo la prima tragedia, in un Mediterraneo come un cimitero. Ma ha un sapore quasi più aspro. Perché dal peschereccio avrebbero rifiutato l’intervento della Guardia Costiera greca? Perché dei soccorsi greci ormai i passeggeri di quelle navi disfatte hanno paura. Ci sono stati casi di maltrattamenti, di abbandoni in mare. Allora dicono: tutto bene, lasciateci andare.
Fino a che il motore tossisce, gracchia, tace definitivamente. Si sente il mare allora, come urla. Ma è tardi. Si salva chi, sul ponte, ha un salvagente. Nella stiva avvertono la barca allo sbando, gridano per uscire – tranne le madri che hanno capito, e pregano. Pregano, già: l’Ue quella notte non c’era, ma, domanda qualcuno, il vostro Gesù, dov’era? Era, potrei giurarlo sui miei figli, là sotto, in quella stiva colma di pianti e odore di pipì, e strilla acute di piccolissimi. Era l’unico rimasto, con quei bambini. E mentre la nave cadeva lenta nell’abisso, li ha abbracciati tutti. E anche ora che sono in paradiso il Cristo in cui io credo guarda quegli occhi chiusi, i visi infantili che non vivranno, e piange - Agnello ancora, con loro. Noi - addolorati, certo - domani penseremo ad altro. È questo dimenticare, che mi preoccupa. Dev’essere questo costante dimenticare che, nella mia casa in pace, preme stasera contro i vetri delle finestre. Non è il vento. Queste morti, noi le tolleriamo e taciamo. Non è il vento: è un balbettio della coscienza.