Botta e risposta. Nascere è una cosa buona: viviamola per restituire futuro al mondo
Caro direttore,
siamo tutti rivolti a ottenere dei risultati – personali, sul lavoro, a breve termine... – e viviamo l’oggi pensando poco al domani. L’altro ieri ascoltavo un importante commentatore finanziario che alla domanda di come vedesse l’economia europea nel medio termine ha risposto: «L’unica certezza che abbiamo nel medio lungo termine è che saremo tutti morti». Subito ho considerato che fosse una vecchia bella battuta, poi ci ho ragionato e ho concluso che in realtà è una pessima battuta. Perché? Perché il ragionare a breve sia nella vita ordinaria che sul lavoro ci ha privato di obiettivi alti, ci ha fatto perdere il desiderio di realizzare anche sogni un po’ utopistici. Ragionare a breve termini in economia, significa massificare l’idea del massimo profitto e, questo incentiva un capitalismo sfrenato e non umano, perché umano il capitalismo può esserlo solo con obiettivi a medio-lungo temine. Il disastro ecologico trova in questa mentalità la sua più grande causa. Il non pensare che il Creato non è nostro, ma ci è stato consegnato per tutelarlo e consegnarlo alle nuove generazioni meglio di prima. È per questo che inviterei le giovani generazioni, a impegnarsi per non avere una vita vissuta alla giornata, ma dandosi obiettivi alti e a lungo termine. Credenti o non credenti dovremmo vivere come se la nostra vita continuasse anche dopo la nostra morte.
Enrico Reverberi
Il direttore mi ha affidato la sua bella lettera, gentile signor Reverberi, e la prima reazione che essa mi suscita è un senso di amarezza verso quei ragazzi cui, come lei dice, dovremmo insegnare a vivere non alla giornata, ma guardando lontano. Siamo stati proprio noi però, la generazione dei padri, a lasciare in eredità ai figli un lavoro che è normalmente precario, a termine, un lavoro che anche se c’è non dà garanzie. La generazione dei sessantenni di oggi in Italia, la più garantita in assoluto nella nostra storia, protetta da leggi e contratti forti, ha lasciato ai suoi figli l’ansia di un lavoro che c’è ora e domani chissà; la paura nell’osare progetti, e, soprattutto, nel mettere al mondo dei figli. Perché il lavoro è precario, ma un figlio è per sempre. Siamo stati noi, o meglio è stato il sistema economico e sociale cui abbiamo aderito, a indurre i giovani a vivere solo nel presente. A prendere quel che c’è oggi, quindi a consumare più che pensare un futuro, più che a costruire: e senza troppo preoccuparsi di come sarà, il mondo dopo di noi. Consumare, è diventato l’imperativo comune con gli anni del boom. Io ricordo ancora la meraviglia dei vecchi, quand’ero bambina, davanti alla massa di vestiti e scarpe dei grandi magazzini negli anni 60. Per tutta la vita avevano indossato cappotti dei fratelli maggiori, rivoltati, e scarpe risuolate: e di colpo, che abbondanza. I magazzini anni 60 erano niente di fronte a un ipermercato di oggi. Avrà provato, signor Reverberi, a entrare in quelli enormi, nei centri commerciali. Non le è parso, nel reparto alimentari, di essere sopraffatto dalla quantità di cibo? Dalle piramidi di arance, dalla distesa di verdure, dalle pile, a Natale, di panettoni? E le carni, e i prosciutti interi appesi al banco salumeria? E bottiglie, flaconi, borse, un’immane quantità di plastica. Non viene da domandarsi, con un sottile sgomento, chi comprerà tutta quella roba, che si farà di ciò che avanza, e dove finiranno tutte quelle bottiglie che, abbandonate o gettate in mare, potrebbero restare inalterate per decenni? C’è qualcosa di sbagliato in questo sistema che da cinquant’anni ci induce a consumare, consumare, scartare, comprare ancora.
Ogni tanto, al tg, dal Terzo mondo immagini di discariche zeppe di cellulari rotti, montagne di bottiglie accartocciate, e ragazzini miserabili che tra quei rifiuti vivono. La sensazione di un errore grave, di qualcosa che non può continuare all’infinito. E quanto la forma mentis di consumatori ci restringe la prospettiva, ci riduce nell’oggi e assorbe le risorse che invece ci occorrerebbero per pensare nel lungo periodo, per costruire qualcosa che duri? Scopriamo ora in Italia che le stesse opere che dovrebbero sfidare il tempo, come i ponti di cemento armato delle nostre autostrade, hanno cinquant’anni e già sono vecchi, rosi nei possenti piloni. Io ho ancora negli occhi, da un lontano viaggio in Spagna, lo splendido ponte dell’acquedotto romano di Segovia, vecchio di duemila anni e gloriosamente in piedi. Mi ci ero fermata a lungo davanti, con i figli bambini: cosa, mi ero chiesta con stupore, induceva gli antichi Romani a costruire a quel modo, con tanta bellezza e tanta maestria? O che cosa spingeva gli ignoti scultori delle guglie del Duomo di Milano a scolpire capolavori, su cui mai nessuno forse avrebbe fermato lo sguardo, là in alto, appena sotto al cielo? Erano uomini, gli artigiani del Duomo e di mille altre nostre antiche chiese, che vivevano in case povere, mangiavano pane e polenta, portavano lo stesso vestito per anni, rammendato. Ma quali meraviglie ci hanno lasciato.
Ci deve essere una contraddizione radicale fra lo sguardo consumista, soffocato nel presente, dell’oggi, e quello di chi ci ha preceduto. O era il fatto di avere tanti figli, fin da giovani, e poi tanti nipoti, a rendere inevitabile di pensare all’avvenire come già presente, prorompente nelle strade delle città e dei paesi, piene di ragazzini? Oggi molti, in Occidente, non hanno figli. Anche questo cambia lo sguardo collettivo: si diffonde l’idea che la vita finisca con noi. E quindi tranquillamente si depredano le risorse naturali, e si inquina. Dopo, che importa? Ciò che permette di operare dentro un lungo orizzonte, in fondo, è amore: per la vita, per sé, per quelli che verranno, nella certezza che nascere sia una cosa buona. Forse è proprio questa certezza che nel nostro mondo occidentale trema, ed è questo che dovremmo trasmettere, più che insegnare, ai figli. Abbiamo ancora in noi questa certezza? Non è cosa che si compra, né che si fabbrica da sé. I più fortunati la ereditano dalla madre, dal padre. Chi non l’ha, la può domandare: come una grazia, come un dono.