Anche ieri la bandiera del “nuovo Messico” è scesa in piazza. Retto dalle mani dei manifestanti, il drappo da 15 metri ha sfilato in testa al corteo. Del vecchio vessillo nazionale conservava solo la lunga striscia bianca nel mezzo, con lo scudo dell’aquila. Quelle laterali – rosse e verdi in segno di speranza – sono state tinte di nero. E, al posto della scritta centrale «Stati Uniti Messicani», si leggeva: «Lo Stato è morto». I simboli portati nelle continue marce organizzate dopo la scomparsa dei 43 studenti di Iguala, il 26 settembre, sintetizzano il clima di sgomento che opprime la nazione-paradosso per antonomasia. Il Messico è la 14esima economia più florida al mondo e la seconda in America Latina, dietro il Brasile. A cadenze regolari, presidente e rappresentanti vengono scelti con elezioni libere e trasparenti, secondo gli standard internazionali. I 71 anni di potere ininterrotto del Partito revolucionario institucional (Pri) – «la dittatura perfetta», come l’ha definita il Nobel per la Letteratura Mario Vargas Llosa – sono un ricordo del passato. Dal 2000, l’alternanza al potere è garantita e il Pri, ora al governo con il presidente Enrique Peña Nieto, ha conquistato regolarmente nelle urne il “trono dell’aquila” (sinonimo di Palazzo). Città del Messico è una delle metropoli più vivaci culturalmente d’America. Eppure, proprio nel suo “cuore”, lo Zocalo, decine di migliaia di cittadini hanno sfilato scandendo lo slogan: «Lo Stato è morto». Una diagnosi forse esagerata. Ma non così tanto. L’organismo delle istituzioni messicane è gravemente malato, un tumore lo divora dall’interno, cellula dopo cellula: il narcotraffico. Lo ha ricordato con forza e commozione, al termine dell’Udienza generale di mercoledì, Papa Francesco: la mattanza di Iguala mette a nudo la rete criminale nascosta dietro il commercio di droga. E ieri lo ha ripetuto con altrettanta emozione la Conferenza episcopale messicana nel messaggio “Basta Ya”: ci troviamo in un momento di «crisi nazionale. Tanti vivono oppressi dalla paura, dalla sfiducia, indifesi di fronte alle minacce dei gruppi criminali e, in alcuni casi, alla deplorevole corruzione delle autorità. Siamo davanti a una situazione dolorosa che ci preoccupa e richiede l’impegno di tutti». La radiografia del “paziente Messico” è inquietante: il governo ha perso il “monopolio della violenza”. Organizzazioni criminali piccole e grandi – al pari di antichi signori feudali – impongono leggi “alternative” e incaricano i loro feroci eserciti di farle rispettare. I proventi derivanti dal narco-business danno ai boss un immenso potere di corruzione, grazie al quale hanno letteralmente acquistato la collaborazione o l’acquiescenza delle stesse istituzioni deputate a combatterli. Il “narcosindaco” di Iguala, che ha ordinato la strage degli studenti scomodi, è uno dei molti esempi. Non accade solo negli Stati di confine, con una lunga tradizione di
bandolerismo (banditismo): la violenza capillare è travasata anche oltrefrontiera, investendo l’intero Centro-America. I risultati sono impressionanti: almeno 150mila morti ammazzati in otto anni, un numero incalcolabile di feriti e orfani, oltre 27mila scomparsi. Dall’elezione di Peña Nieto, nel 2012, le statistiche governative sottolineano un calo degli omicidi. Le fosse comuni in cui continuano a imbattersi gli inquirenti nei dintorni di Iguala smentiscono, giorno dopo giorno, la “versione ufficiale”. La violenza in Messico non è finita anche se il nuovo presidente, all’opposto del predecessore, Felipe Calderón, non ama parlarne. Eppure, non è sempre stato così. A differenza del narcotraffico – le cui origini risalgono al Secondo dopoguerra –, quest’ultima è cominciata negli anni Duemila. Proprio mentre si compiva la transizione dalla “dittatura perfetta” alla democrazia reale. Perché – come spiega l’esperto Edgardo Buscaglia – con la fine del predominio del Pri, è venuto meno anche il suo sistema di controllo autoritario sulle istituzioni e sulla società, gruppi criminali inclusi. Questi ultimi godevano di ampi margini di profitto e movimento a condizione di non “superare certi i limiti”. In seguito, la corruzione centralizzata del partito forte non è stata sostituita da nuovi meccanismi – democratici – di supervisione. I narcos hanno subito approfittato del vuoto di potere interno. Come, quasi contemporaneamente, hanno occupato lo spazio lasciato libero, nel panorama criminale internazionale, dall’indebolimento dei cartelli colombiani. La decisione di Calderón di schierare l’esercito per la lotta al narcotraffico, nel 2007, ha innescato l’esplosione di violenza. Le organizzazioni criminali, al culmine della loro potenza, hanno avviato una battaglia furibonda con lo Stato e i gruppi rivali per sopravvivere. Tante, come Los Zetas e il cartello di Sinaloa, ce l’hanno fatta nonostante gli arresti spettacolari o l’uccisione dei leader. Altre hanno mutato pelle e struttura. In particolare, si assiste, proprio negli ultimissimi anni, alla nascita di una nuova generazione di narcobande. Che occupano i varchi aperti dalla dissoluzione di alcuni grandi cartelli. I Guerreros Unidos, responsabili della morte dei 43 studenti, ne sono l’emblema: gruppi regionali, flessibili, impegnati più nel giro di estorsioni che nel commercio di droga, estremamente violenti proprio per “scoraggiare” i numerosi concorrenti. La ferocia è un tratto distintivo dei narcos, dei cartelli come dei loro sostituti miniaturizzati: brutalità verso le forze di sicurezza, verso i nemici e soprattutto verso i civili.
El plomo (il piombo) è lo strumento più efficace per terrorizzare la popolazione e costringerla a collaborare. Da qui anche il ritorno di una pratica ampiamente impiegata dalle ultime dittature latinoamericane: la
desaparición. Il Messico democratico ha oltre 27mila scomparsi, quasi quanti l’Argentina dei generali. «Dove sono?», ripetono centinaia di migliaia di familiari disperati. Rapiti e costretti a lavorare come schiavi dal crimine, ammazzati, rivenduti nel mercato degli organi o del sesso, le ipotesi si sprecano. Il centro per i diritti umani Fray Juan de Larios, fondato dal coraggioso vescovo di Saltillo, Raúl Vera López, lo denuncia da anni. Insieme alla rete nazionale “Fuerzas unidas por nuestros desaparecidos”. «In Messico non ci sono desaparecidos», tuonava il governo nel silenzio della comunità internazionale. Eppure, tre anni prima, nel giugno 2011, Los Zetas avevano fatto irruzione nel minuscolo villaggio di Allende e catturato gli oltre 300 abitanti. Nessuno li ha più rivisti. Iguala ha svelato l’inganno, obbligando il Messico a guardarsi allo specchio. Per questo, i vescovi vedono «con speranza il risveglio della società civile che, come mai negli ultimi anni, si è espressa contro la corruzione, l’impunità, la complicità di alcune autorità». Ora – scrivono – «è necessario passare dalle proteste alle proposte». L’astio per i partiti è forte: anche il Prd, schieramento che aveva impostato la sua campagna sulla lotta alla corruzione, ha deluso. E tanto: il narco-sindaco di Iguala è stato eletto nelle sue file. La rabbia ha prodotto sporadiche derive violente, tanto che Washington ha esortato alla calma. Eppure, nel fermento, si creano spazi di dibattito e di “crescita politica”, con l’aiuto di esponenti laici e religiosi. Come padre Alejandro Solalinde e suor Leticia Gutierrez che, dopo aver percorso in lungo e in largo il Messico, tra il 23 novembre il 6 dicembre, attraverseranno l’Italia da Lampedusa a Torino con la “Carovana per i diritti dei migranti, per la dignità e la giustizia” per gridare al mondo “mai più scomparsi”. La strada per il cambiamento è lunga. Mentre il Paese vi si inoltra a piccoli passi, negli ultimi cortei spunta un nuovo slogan, accanto a «Lo Stato è morto»: «Messico, non hai più frutti né fiori perché semini solo cadaveri. Ma non rinunciamo ad aspettare la primavera».