Opinioni

La Giornata della memoria. Lasciamoci ferire per stare svegli per restare uomini

Marina Corradi mercoledì 27 gennaio 2010
Sono le facce di 364 ebrei italiani finiti nei lager, una parte delle migliaia deportate in Germania. Dei 1.023 di Roma solo in diciassette ritornarono. Le ha messe on line il Centro di documentazione ebraica contemporanea, per la Giornata della memoria. E chi va su www.cdec.it/voltidellamemoria/ può restarci parecchio. È un attonito viaggio tra storia collettiva e privati ricordi, quello in cui cadi in questo allinearsi di volti dai nomi, dai sorrisi italiani. Uomini e donne, così uguali alle foto d’epoca di ogni altro nostro nonno. Qualcuno che di nome fa Vittorio Emanuele, o Italo: nell’ingenuo patriottismo che almeno fino ai primi anni del Ventennio aveva contagiato anche gli ebrei – certi, com’era ovvio, di essere italiani come gli altri.Ci sono donne e vecchi, in quell’elenco, di settant’anni, e più vecchi; ma accanto, inesorabile, la scritta: deportato a Auschwitz. Ci sono giovani fotografati su una barca a vela, o ai bordi di un campo da tennis, in ancora spensierate estati. Proprio questa normalità serena da album di famiglia ha un impatto da schiaffo su chi osserva. Non sono, questi, i volti dei lager tramandati dai primi scatti dell’esercito americano nel ’45, non sono i corpi scheletriti sotto la divisa da prigionieri, con le facce scavate di fantasmi. Questi sono borghesi, artigiani, famiglie liete e impettite davanti al fotografo, in un giorno di festa: mentre ti pare di immaginare, appena un attimo dopo lo scatto, i bambini che corrono alla tavola imbandita. Proprio la normalità delle immagini rende ancora più lacerante la memoria di ciò che è accaduto.E poi, ci sono i bambini. Molti bambini. A nidiate, tre fratelli o quattro divisi da pochi anni. Come Fiorella, Anna, Attilio, nati tra il ’37 e il ’41 a Roma, portati via dal Ghetto. (Fiorella sembra una bambola, i nastri bianchi tra i capelli ricci). E la famiglia Sadun coi due ragazzini, ritratti al mare, in costume, in una giornata che si indovina di piena, felice estate. E Olimpia, infagottata e ridente nel freddo della sua Bolzano. E Carlo e Massimo, fratelli milanesi, il maggiore che abbraccia il più piccolo, neonato, con tenero orgoglio.Questi non sono i ragazzini atterriti delle foto con la stella gialla sul petto e le mani in alto davanti ai soldati nazisti. Sono gli stessi, ma "prima". Bambini e basta. Solo da Roma, ne deportarono 288 (ne tornò uno solo). E non puoi non pensare come fu che li strapparono ai parenti, li incolonnarono, e con quali rauche grida straniere li fecero salire sui camion. Non puoi non pensare cosa fu, nel brutale tramestio del rastrellamento, staccarsi dal padre, e avvinghiarsi alla mano di una sorella di poco più grande, che sussurrava materna: non aver paura. Partire stringendo in mano un orsacchiotto, disperatamente, come un ultimo brandello di casa. Poi, su quei treni, non sappiamo. Il film si ferma, l’immaginazione si oscura – forse perché non tolleriamo di sapere.Che le vedano i nostri figli, le facce di quei vecchi inermi, e di quei bambini. Che facciano questo doloroso sbalordito tuffo in una memoria che, se a noi pare lontana, è in realtà così breve: quei ragazzi andavano a scuola con i nostri genitori. 66 anni, nei millenni della storia, sono un soffio. L’Olocausto – il cuore del male, il genocidio sistematico, scientifico, pianificato, taylorizzato in una maggiore efficienza – è stato appena ieri.Che sappiano, i figli. Che non siano troppo, ottusamente tranquilli. Girano voci su Internet e non solo che dicono che l’Olocausto è bugia e propaganda. Che non è vero. Che non è accaduto. In un vertice di menzogna, che vorrebbe annientare anche la memoria. Che li guardino, i nostri ragazzi, quei bambini. Che sussultino, riconoscendoli familiari. Che siano, dal loro destino, almeno per un momento feriti. Ci sono ferite necessarie, che occorre lasciare aperte.Occorre lasciarsi ferire e ricordare per stare svegli, per restare uomini.