Armi. Munizioni con uranio impoverito: in Ucraina un incubo che ritorna
L’invio in Ucraina di munizioni all’uranio impoverito ha sollevato molte preoccupazioni, per i rischi sanitari che comportano
«Insieme alla fornitura di carri armai Challenger 2 all’Ucraina, daremo munizioni tra cui proiettili perforanti che contengono uranio impoverito ». La risposta della vice-ministra della Difesa britannica, Annabel Goldie, all’interrogazione del “lord” Raymond Jollyffe del 20 marzo, ha riportato alla ribalta la spinosa questione dell’impiego dell’uranio impoverito negli scenari bellici. Il diritto internazionale non lo vieta poiché i « vantaggi militari» sono ritenuti superiori ai «mali inferti». I primi sono, in effetti, consistenti. « Duro e coeso, ha una densità elevatissima, doppia del piombo. Per questo, i proiettili rivestiti con il materiale sono in grado di perforare con facilità le corazze dei tank e dei bunker », spiega Francesco Vignarca, coordinatore della Rete nazionale pace e disarmo.
Oltretutto è più economico di altri metalli, ad esempio il tungsteno. L’uranio impoverito è un sottoprodotto del processo nucleare. Dunque, in teoria, si tratta di uno “scarto” che l’industria delle armi ha trasformato in risorsa redditizia. Pur provenendo dalle centrali, infine, ha una radioattività «debole», per parafrasare l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Allo stato inerte, emette particelle alfa che, a contatto con la pelle, non comportano rischi. « Il problema si ha quando c’è un urto, come nel caso di un’esplosione – sottolinea Francesco Iannuzzelli, ingegnere, esperto di armamenti e esponente dell’International coalition to ban uranium weapons (Icbuw) –. L’uranio impoverito raggiunge temperature altissime, oltre i 3mila gradi, generando una nube di nano-polveri così sottili da oltrepassare i filtri dell’organismo, fino entrare addirittura all’interno delle cellule, intaccandone la struttura genetica». Se inalate in grande quantità, come affermato dall’Oms nel gennaio 2003, possono causare tumori. I “mali inferti”, alla luce dell’esperienza storica degli ultimi decenni, dunque, sono tutt’altro che irrilevanti.
Gli utilizzi iniziali risalgono alla prima Guerra del Golfo quando la coalizione a guida Usa ha invaso l’Iraq nel 1991. Da allora, munizioni all’uranio impoverito sono state impiegate abbondantemente nei teatri dei Balcani – Bosnia, Serbia e Kosovo –, della Somalia, della Siria e dell’Afghanistan. Nel frattempo, però, sono cominciate le prime denunce al Pentagono da parte di ex soldati statunitensi che, al ritorno, hanno manifestato i sintomi di varie malattie, dal cancro a i disturbi neurologici. «Sindrome del Golfo», l’hanno soprannominata i media. Nel 2002, in seguito all’appello di 80mila militari, il Government reform and oversight commettee di Washington ha avviato un’inchiesta per valutare gli effetti della missione irachena sulla salute dei combattenti esposti all’uranio impoverito. A quelle dei veterani americani del Golfo si sono, in seguito sommate, nel mondo, le rimostranze dei soldati dispiegati nei Balcani e, infine, a Kabul.
In seguito a questo fermento è nata l’Icbuw, come rete di molteplici associazioni. «Uno dei nostri risultati è stato il consenso crescente in Assemblea generale delle Nazioni Unite, negli ultimi quindici anni, che si è coagulato intorno alla bozza di risoluzione per la dismissione delle armi con uranio impoverito. Lo scorso 7 dicembre è stata adottata con il voto favorevole di 147 Stati. Si tratta di un importante passo avanti anche se siamo ancora lontani dall’unanimità per la ferma opposizione delle grandi potenze, inclusa gran parte dei Paesi Nato – afferma Iannuzzelli –. Negli States, inoltre, dall’anno scorso, il corpo dei Marines ha annunciato l’abbandono di armamenti con uranio impoverito».
In termini di progressi, l’Italia – che non produce direttamente il materiale – è pioniera in Europa. Parola dell’avvocato Angelo Tartaglia, con alle spalle oltre trecento sentenze favorevoli in altrettante cause civili in cui ha rappresentato militari ammalati dopo aver partecipato a operazioni nei teatri bellici “incriminati”, soprattutto Balcani, Iraq e Afghanistan. In totale 40mila soldati delle nostre truppe vi hanno preso parte. A questi si sommano quanti hanno lavorato nei poligoni multifunzione, il 66% dei quali si trova in Sardegna, nei tre siti di Salto di Quirra, Capo Teulada e Capo Frasca per un totale di 35mila ettari. Questi sono affittati dal ministero della Difesa ad altri Stati o a grandi produttori di armi per effettuare esercitazioni. Pur in assenza di una prova definitiva, si sospetta l’utilizzo di proiettili all’uranio impoverito. «Gli utenti devono solo firmare un’auto-certificazione di impegno a non causare danni alle persone e all’ambiente. Questi ultimi sono evidenti per la stessa Regione che, a dicembre, ha avviato una valutazione di incidenza ambientale per il piano di bonifica dell’area di Teulada», sottolinea Stefania Divertito, giornalista che, da 23 anni, segue la vicenda, a cui ha dedicato il saggio “Uranio” (Infinito edizioni) e ora è al lavoro su un ciclo di podcast e una docu-serie.
In tutto sono almeno 7.500 i militari che hanno manifestato patologie sospette al rientro dalle missioni estere o nei poligoni, quattrocento sono morti. « Me ne occupo dall’inizio degli anni Duemila. I primi verdetti risalgono al periodo 2007-2008 con il riconoscimento del danno per omicidio colposo», afferma l’avvocato Tartaglia. E ribadisce: «Ormai non ci sono dubbi sulla tossicità dell’uranio impoverito. E sulla sua radioattività quando non è più allo stato inerte ma viene inalato dall’organismo». Sulla stessa linea l’ex senatore Gian Piero Scanu, chiamato a presiedere, nel 2016, la quarta commissione parlamentare di inchiesta sulla questione, la cui relazione conclusiva è stata approvata l’anno successivo dalla Camera. « Il nesso di causalità tra uranio impoverito e danno alla salute è ormai dimostrato, come hanno confermato i nostri accertamenti effettuati sia dal punto di vista medico-scientifico sia da quello della ricostruzione storica. La politica, però, resta inerte. Almeno da noi la magistratura sta svolgendo un importante ruolo di supplenza. Ma, purtroppo, a livello internazionale, l’impiego dell’uranio resta legale», dice Scanu. E conclude: « Anzi, ora, si vogliono ripetere gli errori con l’Ucraina».
In realtà, non è solo la Gran Bretagna a voler inviare munizioni “problematiche”. C’è il dubbio che la Russia non le abbia già utilizzate. Negli arsenali di Mosca ci sono ingenti quantità di munizioni Svinets 1 e Svinets 2, rivestite di uranio impoverito. E il gruppo di sminamento di Ginevra Gdh ne ha denunciato l’impiego nei mesi scorsi. « La decisione britannica ora – afferma Vignarca – rappresenta un ulteriore elemento di preoccupazione. In primo luogo, perché mette a rischio i militari e la popolazione di Kiev per i prossimi decenni, dati i tempi di bonifica, proprio da parte di quanti vorrebbero aiutarli. Viene, poi, oltrepassata un’altra soglia strategica, in un’ottica di continua escalation».