Paese bloccato Movimento perso. Chi (non) governa la paga assai cara
Chi governa paga (quasi) sempre la distanza tra le promesse della campagna elettorale e la realtà dei problemi da risolvere. Chi è al potere, ma non-governa, di più. È una "legge" politica pressoché universale, che il Movimento cinque stelle sta subendo in modo pesante. In Sardegna la creatura di Grillo e Casaleggio ha perso, cedendo ancora più voti di quanti ne avesse lasciati per strada in Abruzzo, segno di un trend che dovrebbe portare Luigi Di Maio e i vertici pentastellati – prossimi a dotarsi di un’organizzazione "partitica" – a riflessioni molto più approfondite rispetto al consolatorio «alle amministrative andiamo sempre male».
Nell’Isola, M5s perde 300mila voti rispetto al 4 marzo dello scorso anno, crollando dal 42,5 a meno del 10%. In Abruzzo era andata relativamente "meglio", con l’abbandono di circa 185mila elettori rispetto alle politiche del 2018. Una fuga verso l’astensione – vicina alla metà del corpo elettorale –, verso l’alleato leghista e, in parte maggiore, verso il centrosinistra unito. Forse è arrivato il momento per il Movimento di affrontare i limiti di un’agenda programmatica ed economica monotematica, che prevede il Reddito di cittadinanza – molto depotenziato rispetto alle ipotesi originarie – e poco altro. Le altre intuizioni "sistemiche" del Movimento, relative ad ambiente, economia sostenibile, tempi di lavoro e di riposo, lotta alle lobby, si stanno scontrando con la difficoltà di passare dalle parole ai fatti e con il forte posizionamento "pragmatico" di un alleato di governo, la Lega, che su questi temi parte da posizioni assai diverse.
Ne viene fuori una sensazione di paralisi del Paese – ben esemplificato dall’incombente "crescita zero" – e non bisogna meravigliarsi se le responsabilità non vengono divise equamente tra M5s e Lega. È il Movimento la forza politica che alle scorse elezioni ha incassato la maggioranza relativa, è al Movimento che è stato chiesto – soprattutto nel Centro-Sud – di dare corpo a risposte sociali ed economiche che prima del voto venivano presentate come "a portata di mano", e che ora sembrano montagne insuperabili. Se esiste davvero un’opinione pubblica collettiva, essa ha in questo momento la sensazione che la parte di "contratto" che si sta realizzando – a partire dal contrasto "a prescindere" all’immigrazione – è quella della Lega. Tutto ciò che si sta fermando è, invece, bloccato da M5s. A Luigi Di Maio non basterà una nuova organizzazione senza anche riscrivere una nuova agenda che risponda in modo più concreto alla "fame di lavoro" delle terre da cui lui stesso proviene. Alla Sardegna, evidentemente, il Reddito pentastellato non basta.
Matteo Salvini può sorridere, ma ha diversi punti sui quali riflettere. Il dato più forte è che la Sardegna è la prima Regione fuori dal Nord in cui un leghista si insedia da governatore. Ma più ancora che in Abruzzo, sull’Isola si conferma che la Lega, per ambire a governare il Paese, ha bisogno di alleati. Il progetto di un "tandem" con Giorgia Meloni che sia autosufficiente rispetto a componenti più moderate si scontra, per ora, con la realtà e con un Silvio Berlusconi che ha messo il coltello tra i denti. In Sardegna è avvenuto il radicamento della Lega in un territorio nuovo, ma l’onda "emotiva" del salvinismo non è montata nonostante l’assiduo impegno del gran capo. Nel contempo, la Tav è congelata, l’Autonomia pure, e il pacchetto fiscale appare un libro dei sogni: il leader del Carroccio dovrà riflettere a fondo per capire se il traino nazionale e la libertà d’azione che questo esecutivo gli garantisce valga il prezzo di uno scollamento con i ceti produttivi del Nord che a più riprese gli stanno chiedendo di mantenere le promesse su tasse e infrastrutture.
Questi elementi, messi insieme, possono far immaginare l’accelerazione di una 'resa dei conti' interna al governo. Il punto di crisi tra i due alleati si sta avvicinando. Che ci si arrivi prima delle Europee (che non saranno solo un sondaggio...) resta una tesi ardita, ma meno di ieri. Anche per l’evoluzione del tripolarismo nato nel 2013. Una 'destra destra' da una parte. Una 'sinistra sinistra' dall’altra (specie se il Pd finirà nelle mani di Nicola Zingaretti), con leadership molto simili ai profili pragmatici espressi in Abruzzo (Legnini) e Sardegna (Zedda). Entrambi poli fondati su una base di amministratori locali con attitudini a governare e a drenare consenso sui territori. Un assetto che potrebbe far esplodere le frizioni tra le due 'anime' del M5s. Ma in cui si aprirebbero spazi per proposte che sappiano coniugare novità e responsabilità. In fondo, a ragion veduta, il dato più eloquente delle due ultime tornate regionali resta quella metà di elettori che hanno ritirato la loro delega a questa politica.