Il voto ai diciottenni per il Senato. Mossa oltre l'antipolitica
La legge costituzionale appena approvata definitivamente dal Parlamento che consentirà di votare anche per il Senato a quasi quattro milioni di cittadini tra i 18 e i 25 anni non è una riforma da prendere sotto gamba. Certo, le nostre istituzioni – peraltro solide anche in questa inedita e difficilissima stagione di pandemia – avrebbero probabilmente bisogno di un aggiornamento di più ampio respiro, quello di cui si discute ormai da quasi quarant’anni. Ma anche a darsi degli obiettivi più abbordabili in questa fase, la legge appena varata (salvo referendum confermativo) rischia di essere l’unica ad arrivare in porto tra le riforme promesse a integrazione e compensazione del taglio dei parlamentari.
Eppure la piccola riforma che consentirà a tutti i cittadini maggiorenni di votare per entrambi i rami del Parlamento costituisce un passaggio di grande significato, sia in termini sociali che "di sistema". Sotto questo secondo profilo, c’è innanzitutto da rilevare che aver reso omogeneo il corpo elettorale rispetto alle due Camere rappresenta una risposta concreta e realistica al problema di ricevere dalle urne potenziali maggioranze di governo diverse o comunque non equivalenti. Una risposta che ovviamente non risolve la questione fondamentale della stabilità dell’esecutivo – per cui occorrerebbero interventi di altra portata – ma evita almeno di rendere probabile, a causa di una vistosa diversità di elettorato, una situazione asimmetrica tra la maggioranza di Montecitorio e quella di Palazzo Madama.
Qui viene chiamato in causa il nodo del "bicameralismo perfetto", autentica rarità comparata del nostro sistema, che prevede due Camere con le stesse identiche funzioni, compresa quella di esprimere la fiducia al governo. Questo nodo prima o poi andrà sciolto o nella direzione del monocameralismo (la riduzione del numero totale dei parlamentari ha riacceso questa ipotesi) o, forse più proficuamente, verso una differenziazione delle funzioni. L’esperienza della pandemia, per esempio, ha richiamato con forza la necessità di un luogo istituzionale in cui rappresentare e coordinare la funzione delle Regioni, il cui ruolo è cresciuto in modo esponenziale con la riforma del 2001, e questo luogo potrebbe essere il Senato, sviluppando un filone di pensiero che in nuce è presente nella stessa Costituzione e con più evidenza nel dibattito tra i padri costituenti. In attesa di questi passaggi epocali, però, l’equiparazione del corpo elettorale tende almeno a limitare gli esiti più paradossali del sistema in vigore e allo stesso tempo apporta al Senato la nuova linfa del voto giovanile, anche se l’età minima per essere eletti è rimasta ferma a 40 anni, contro i 25 della Camera. Sarebbe stato interessante intervenire anche su questo aspetto.
Il profilo sociale della riforma – se così si può dire – riguarda il segnale che dai Palazzi della politica viene mandato ai concittadini più giovani in un momento in cui tutto il Paese sta cercando di risollevarsi dalle conseguenze della pandemia e di costruire un domani possibilmente migliore della situazione pre-Covid. Se il piano europeo a cui sono affidate tante speranze in termini economici si intitola Next Generation, prossima generazione, anche la scelta di un maggior riconoscimento politico del ruolo dei giovani va nella stessa direzione. È un investimento sul futuro, un atto di fiducia, una chiamata alla partecipazione e alla responsabilità. La riforma dell’elettorato attivo del Senato, a ben vedere, va in direzione opposta all’anti-politica.