Opinioni

Il direttore risponde. Morti sul lavoro, nessuno può più parlare di «fatalità»

mercoledì 15 settembre 2010
Caro direttore,davvero troppi lutti sui luoghi di lavoro. E da cristiani oltre al dolore da condividere diventa doverosa una preghiera, sia per chi improvvisamente si trova "faccia a faccia" con il Padre misericordioso, sia per chi piange queste morti e soffrirà la mancanza degli affetti e del buon esempio. La riflessione di Antonio Giorgi su "Avvenire" di domenica 12 settembre mi dà lo spunto per alcune osservazioni. Scrive Giorgi che non è solo la fatalità la causa di queste tragedie: «Troppe chiacchiere e dibattiti». E io aggiungo: troppe e complicate e contraddittorie leggi sul tema. Carte, richiami a regole precedenti, moduli in abbondanza, incaricati dei controlli spesso in contraddizione tra loro sul come e quando e chi dell’applicazione delle norme. Senza lasciare da parte un aspetto che viene spesso dimenticato: quello della responsabilità personale. È compito di ognuno verificare al meglio le condizioni ambientali e logistiche e utilizzare le attrezzature idonee per un qualsiasi lavoro. Più pericoloso si presenta e più attenzione e preparazione occorre mettere in campo. Si dice spesso che bisogna eseguire gli ordini di un superiore o di un caposquadra. Ma se sono cosciente del lavoro che devo fare, mi attrezzo mentalmente e materialmente di ciò che serve per fare bene e in sicurezza il compito assegnatomi. Si dice anche che si pretende il "presto e subito", ma ciò non si giustifica. Da se stessi, dai superiori e dai sindacati si può pretendere solo responsabilità e capacità. Dopo incidenti sul lavoro che incidenti non sono, perché c’è sempre la colpa di qualcuno, anche se umanamente l’imprevedibile è sempre in agguato, si fanno scioperi di protesta. Ma la protesta, con l’aggiunta della proposta, non può arrivare sempre dopo. La fatalità, infatti, non esiste. E ciò che è giusto e necessario non va invocato a tragedie consumate, ma praticato prima. Le cose giuste vanno fatte al momento giusto.

Luigi Cantù

Caro direttore,state a vedere che alla fine anche stavolta, dopo la strage di Capua, diranno che è colpa degli operai se sono morti. Già c’è chi parla di errore umano… Ma perché ci sono aziende che, quando muore un lavoratore, cercano di lavarsene le mani? Ma è possibile che loro non abbiano mai colpa? È possibile che ogni volta si sia di fronte solo a un tragico evento o a un brutto incidente? Se la sicurezza sul lavoro della Dsm di Capua era ed è davvero un "fiore all’occhiello" perché quei tre poveri operai sono morti? Chi parla di tragica fatalità, di errore umano, di brutto incidente, si dovrebbe vergognare!

Marco Bazzoni operaio metalmeccanico, Firenze

Caro direttore,siamo nell’era della tecnologia, del controllo globale, eppure c’è ancora chi muore per lavorare. Eppure, ormai, basta che un alito di vento spenga la fiamma del fornello perché un sofisticato sistema elettronico interrompa l’erogazione del gas. Eppure, ormai, se una stufa o una caldaia domestica hanno una aspirazione dei fumi difettosa, entrano in azione "nasi elettronici" che rilevano prontamente la presenza in un ambiente di monossido di carbonio e fanno scattare l’allarme… Voglio dire che esistono mezzi di controllo e di prevenzione sia civili che industriali. Così come esistono regole e procedure di sicurezza. Perché non usarli? Perché non rispettarli? Perché lasciare che ogni anno, nel nostro Paese, continuino a morire sul lavoro almeno mille persone? È paradossale, è stupido, è inaccettabile! La manutenzione di cisterne e silos è divenuta una delle cause di morte più frequenti: possibile che chi opera in questo ambito non si renda conto che morire è questione di un attimo? Ma come si fa a introdursi in cisterne o silos senza indossare le maschere del caso? E come è possibile lasciar accedere operai delle manutenzioni in cisterne e silos senza avere eseguito preventivamente una attenta analisi delle esalazioni aeree con rivelatori di gas e sostanze nocive? Nel 2010 non è più accettabile morire sul lavoro per superficialità o negligenze. Ed è doveroso, in casi come quello di Capua, accertare sino in fondo l’accaduto e denunciarne pubblicamente la causa, qualunque essa sia. È necessario denunciare la responsabilità, sia essa degli operai o dell’azienda, affinché tutti coloro che domani si troveranno a lavorare in situazioni analoghe, si rifiutino di operare senza il rispetto dei margini di sicurezza imposti dalla legge.

Alessandro Consonni

Ogni morte sul lavoro, ogni menomazione subita mentre ci si guadagna il pane per sé e per i propri cari, è uno scandalo insopportabile. I diversi eppure consonanti accenti delle vostre lettere, cari amici lettori, tornano a gridarlo. E io ho poco da aggiungere alle vostre considerazioni e all’ansia di giustizia che le pervade. Mi preme, però, sottolineare con forza un punto particolare: la nostra società è ormai giunta a un tale livello di progresso tecnico e di consapevolezza civile che nessuno può più pensare di poter spiegare e giustificare con la "fatalità" tragedie come quella di Capua. Neanche la complessità delle normative – purtroppo un male endemico nella nostra Italia – può essere invocata come alibi. Per quanto farraginoso e confuso possa apparire un sistema normativo, le regole base della sicurezza sui luoghi di lavoro sono di una chiarezza assoluta e le misure di prevenzione e di vigilanza così come i mezzi di controllo e di allarme sono diventati talmente efficaci e "facili" che nessuno può accampare scuse per eludere quelle o ignorare questi. Le inutili «montagne di carte» evocate da qualcuno non sono un’invenzione, e certo pesano. Ma non potranno mai mettere in pace le coscienze di coloro che ben possono garantire sicurezza a sé e agli altri in fabbrica, nei cantieri e ovunque. Non possiamo e non vogliamo rassegnarci all’idea che "andare al lavoro" sia entrare in una guerra subdola, non dichiarata eppure troppe volte letale.