Lavoro nero. Morire in un non-luogo di invisibilità
Le vittime in un cantiere irregolare gridano il dovere della politica Quante cose non dovevano esserci nel cantiere dove lunedì 1 giugno a Napoli, nel quartiere di Pianura, sono morti sotto una frana Ciro, operaio napoletano di 61 anni e un suo collega di origine nordafricana di 20 anni. E quante altre cose avrebbero dovuto esserci.
Non doveva esserci proprio quel cantiere. Abusivo, per realizzare una casa abusiva, in una zona geologicamente fragile, come tante nel nostro fragile Paese. Non doveva esserci e invece c’era, come tante altre volte. Case che non possono, non devono essere costruite, perché è vietato non solo da una norma, ma perché rappresentano un rischio concreto, vero. Ce ne accorgiamo solo dopo, quando una frana o un’alluvione le travolge, provocando morti e distruzione. Questa volta è successo prima, durante la costruzione e a pagare sono stati due lavoratori. Che però lì non dovevano esserci. E non solo perché il cantiere era abusivo.
Ciro aveva un lavoro, dipendente dell’Asia, l’azienda comunale di Napoli per la gestione dei rifiuti. Ma come tanti aveva un secondo lavoro, in nero appunto. Non un lusso, ma altra fatica (a Napoli lavorare si dice 'faticare'). Perché la famiglia costa e uno stipendio da operaio non basta. «Era sempre pronto a dare una mano», dicono nel quartiere. Anche per necessità. E dopo la lunga pausa Covid-19 quel cantiere era davvero un’occasione da non perdere. Come per i tre giovani africani che lo affiancavano, lui esperto capomastro, loro manovali. Ma anche loro non dovevano essere lì. Anche se in realtà tanti come loro lavorano da invisibili nei cantieri. Proprio lunedì è partito l’iter della regolarizzazione decisa dal governo. Ma solo per braccianti agricoli e badanti. Per l’edilizia niente. Eppure, come è stato ricordato più volte su queste pagine, anche l’edilizia è luogo di sfruttamento, di lavoro irregolare e insicuro. La tragedia di Pianura lo conferma.
E non erano necessarie queste ennesime morti in un cantiere per far emergere la necessità di regolarizzare pure questo settore. Dove gli invisibili diventano visibili solo dopo la morte. Ma sono talmente invisibili che ancora non si sa il nome del ragazzo morto. E il nome è uno dei diritti più importanti di ogni essere umano, anche dopo la morte. Dimenticarlo non si può e non si deve. Non c’è ripresa economica che giustifichi insicurezza, illegalità e violazione dei diritti e dei doveri più basilari. Dopo tante morti di coronavirus non è accettabile ricominciare con lo stillicidio delle 'solite' morti di lavoro.
La sicurezza non è un optional su cui risparmiare, è un diritto primario, fondamentale. Davvero quegli operai non dovevano essere in quel cantiere che non doveva esserci. Un non-luogo, teatro di un lavoro senza diritti, senza dignità, senza giustizia sociale. Questo doveva esserci e invece non c’è stato. Questo deve finalmente esserci. La regolarizzazione è un importante primo passo, si sblocca finalmente una situazione che sembrava intoccabile. Resa drammatica dai cosiddetti Decreti Sicurezza che contengono norme orientate a paradossalmente accrescere illegalità e insicurezza.
Per questo quel primo passo non basta. Serve davvero dare (o ridare) chiari diritti e doveri, dignità e giustizia a chi lavora, che sia italiano di nascita o immigrato. I padri costituenti hanno messo il lavoro alla base della nostra Repubblica democratica, addirittura nel primo articolo della Carta costituzionale. I due morti di Pianura sono una gravissima offesa a questi fondamentali valori. Sono un drammatico messaggio alla politica ad avere più coraggio, più coerenza. Il lavoro alla luce del sole è un diritto e un dovere vero e serio. Non da concedere solo un po’ e solo a qualcuno. ©