Loro non hanno niente, noi non abbiamo alibi. Morire di freddo: via prima di andarsene
In questi giorni di buriana era prevedibile che qualcuno potesse morire di freddo alla Stazione Termini di Roma, o alla Stazione Centrale di Milano, o alla Stazione Porta Nuova di Torino. Su Facebook un lettore me l’ha perfino chiesto: «Come possiamo noi europei, figli della civiltà cristiana, accettare che qualcuno muoia di freddo per strada?». Intendeva dire: quella morte ci offende per due ragioni, è pubblica e noi la vediamo davanti ai nostri piedi, è dolorosa e dovrebbe rendere dolorose le nostre giornate. Come possiamo dirci cristiani? O civili? Gli ho risposto che se davanti a noi qualcuno muore di freddo, e noi ce ne accorgiamo dopo che è morto, noi non siamo cristiani (dovremmo aiutare), non siamo civili (dovremmo chiamare aiuto), ma siamo borghesi. L’essere borghesi non comporta il mors tua vita mea, riassumerlo così è sbagliato. L’interpretazione dell’indifferenza borghese (c’è un libro di Moravia intitolato Gli indifferenti, e ne parlammo anche su queste pagine) è un’altra e dice al moribondo: 'Il tuo freddo non è il mio freddo, ognuno ha il suo, tu risolvi il tuo e siamo a posto'.
E così un clochard è morto di freddo alla Stazione Centrale di Milano e nessuno se n’è accorto, se non troppo tardi. E chi era questo clochard? Un povero diventato poverissimo? Testimone del principio che non c’è mai fondo all’abisso? No, a quanto pare, non era questo. Un artista, vissuto tra genio e sregolatezza, che viveva borderline, poteva morire sulla vetta del successo o nell’abisso del fallimento? No, neanche questo. A quanto pare era uno chef, aveva lavorato in locali di lusso proprio nei pressi della Stazione Centrale. Poi i problemi di famiglia, l’alcol, la depressione. Precipitato dal benessere nell’indigenza, s’è messo a vivere tra gli altri indigenti, una trentina, che s’accampano alla stazione. Agganciato dai servizi sociali e portato in un centro d’accoglienza, non c’è rimasto, ma scappava fuori, per vivere tra i senza niente. Perché? Perché voleva restare nella città, non finire in un posto segregato. A San Francisco c’è un centro d’accoglienza per i malati di Aids in una piazza centrale, ma i ricoverati scappano via e si accovacciano sui marciapiedi, tra le gambe della gente. Per passeggiare, li devi scavalcare. A loro piace questo contatto, continuare a far parte della vita che vive.
Il clochard morto a Milano si chiamava Max, aveva passato tutta la vita lavorativa intorno alla Stazione Centrale, restando lì gli pareva di restare nella vita, negando la disgrazia, la caduta nella sfortuna, l’impoverimento. Passando per la stazione Termini di Roma a distanza di mesi, e sfilando sulla fiancata sinistra, quella dalla quale Pasolini raccolse in auto Pelosi, che poco dopo lo ucciderà, ho guardato in faccia l’umanità che si accovaccia sotto i muri imponenti, e ho riconosciuto volti visti mesi prima: dunque anche a Roma come a Milano i disperati frequentatori della stazione formano una piccola comunità, una società a parte, fedele a se stessa. Non sappiamo 'agganciarli' e riportarli fra noi. Questo è anche il nostro alibi, perché diciamo: 'Non vogliono'. In realtà non vogliono certo morire, e tanto meno morire di freddo. Morendo di freddo si muore delirando.
Visto che questo freddo vien dalla Russia, peschiamo un aneddoto dalla Russia. Nel Sergente sulla neve Mario Rigoni Stern racconta la ritirata dalla Russia con un freddo micidiale, vestiti inadeguati, fame. Tappe forzate. Soste che non ritemprano dallo sfinimento. In una sosta, nella notte gelida, un alpino viene alla tenda di Mario (cito a memoria, posso sbagliare), e gli chiede se son pronte le bozze. 'Quali bozze?'. 'L’articolo che ho consegnato ieri, voglio che sia stampato senza errori'. Moriva di freddo, ma era fuori di testa e continuava il suo lavoro di scrittore. I morenti di freddo se ne vanno prima di andarsene. Nel caso di Rigoni succedeva in Russia e voleva dire che la Russia aveva vinto. Nel caso dello chef-clochard succede a Milano e vuol dire che Milano ha perso.