Civilizzare la globalizzazione. Mondo parallelo
Il rogo di Prato ci mette sotto gli occhi brutalmente qualcosa che abbiamo sinora fatto finta di non vedere. I dormitori con operai che lavorano 24 ore al giorno con le inferriate alle finestre li abbiamo anche sotto casa, in un mondo invisibile ai più e parallelo al nostro dove difendiamo coi denti il benessere e le conquiste di civiltà accumulate dalle generazioni precedenti. Le «fabbriche di schiavi» e le vicende come quelle del crollo del Rana Plaza a Dacca non dunque sono solo storie dei Paesi poveri o emergenti, ma vicende che abbiamo importato da tempo anche a casa nostra per «recuperare competitività».La speranza è che eventi drammatici e inaccettabili come questo ricordino a tutti che la missione più urgente che abbiamo è quella di civilizzare la globalizzazione. Perché la dignità di una società è la dignità degli ultimi. La legge di gravità dell’economia è nota. I capitali vanno laddove il lavoro è meno caro per cercare di massimizzare i profitti. Tutto questo produce (molto lentamente, molto dolorosamente e a prezzo di enormi diseguaglianze) una convergenza degli ultimi verso i primi (i Paesi poveri crescono più dei Paesi ricchi, ormai da molti anni). Ed è perciò ulissimo e bellissimo l’accenno di Papa Francesco nella Evangelii Gaudium ai limiti della "teoria della ricaduta favorevole" del benessere dei ricchi sui poveri. Quanto tempo ci vuole a "svuotare" la miseria del mondo? Quanto a migliorare le sorti di un "esercito di riserva" di manodopera da 1,2 miliardi di persone che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno (soglia di povertà assoluta) ai quali (secondo gli ultimi dati Onu) si aggiugono i 2,7 miliardi che vivono con meno di due dollari al giorno? Le conseguenze sul nostro lavoro di questa concorrenza a basso costo sono il triste rosario delle delocalizzazioni e la difficoltà crescente di creare lavoro sui nostri territori (se non a condizioni simili a quelle di Prato) quando non siamo abbastanza bravi a identificare, incorporare e raccontare nei prodotti il loro genius loci. Ovvero quando non puntiamo su quei vantaggi competitivi non delocalizzabili (qualità tecnologica, risorse artistiche, culturali, ambientali) che riducono il peso del costo del lavoro nella concorrenza internazionale. La domanda più importante da farsi oggi è, perciò, come creare e accelerare processi di convergenza verso l’alto del costo del lavoro e del benessere a livello mondiale. Le vie le abbiamo individuate da tempo, ma la nostra società non sta procedendo in quella direzione con la consapevolezza e determinazione che l’urgenza del problema richiede. Da questo punto di vista esiste un compito preciso per ciascuno.I politici devono migliorare il sistema Paese lavorando sulle differenze che ci separano dai modelli nordeuropei in termini di autostrade digitali, istruzione, ricerca, efficienza della giustizia e della pubblica amministrazione, lotta a corruzione e sprechi. Devono lavorare per aumentare la nostra competitività, evitando però di contrabbandarci come "conquista di progresso" la riduzione media dei salari che deriva dal nero, dal sommerso e dall’insostenibilità sociale delle filiere come quella tristemente giunta ora alla nostra piena attenzione.E devono, a livello europeo, pretendere molta più creatività nel designare politiche monetarie e fiscali in grado di compensare i costi sociali della globalizzazione con i suoi dividendi monetari, ovvero la possibilità di usare con più libertà e audacia i meccanismi di creazione di moneta per contrastare disoccupazione e rilanciare la domanda interna seguendo il modello Fed.Gli imprenditori devono ingegnarsi per innovare e individuare il genius loci di cui parlavamo sopra perché fare affidamento su filiere nelle quali i fornitori sono aziende come quelle del rogo di Prato vuol dire fondare la propria competitività su radici fragili e fattori effimeri.
Noi cittadini, infine, possiamo fare molto imparando – lo ripeto ancora una volta – a "votare col portafoglio" e ad agire dal basso. Non fingendo più di ignorare cosa si cela dietro certe filiere e i costi di certi prodotti. E capendo che abbiamo attraverso consumi, risparmi e azioni di mail bombing (come quella efficacissima lanciata dalla campagna "scopri il marchio" di Oxfam) un potere enorme per premiare le aziende "giuste".Su questa via c’è bisogno di risposte importanti della da parte delle autorità politiche. Forme leggere di "protezionismo etico" cominciano a emergere a livello europeo con la Social Business Initiative che autorizza e sollecita una fiscalità premiale verso le filiere socialmente e ambientalmente sostenibili. E le stesse amministrazioni locali iniziano a "votare col portafoglio" attraverso l’introduzione di «criteri minimi ambientali e sociali» (Cad e Cas) al di sotto dei quali le aziende non possono partecipare agli appalti. E’ questo un fronte decisivo nel quale il nostro bene e quello dei poveri operai cinesi di Prato viaggiano a braccetto. Bisogna avere il coraggio di dire che il puro libero scambio non ce la fa da solo a riequilibrare la situazione e che c’è bisogno di una globalizzazione 2.0: anche gli economisti di tendenza più scolastici e schematici devono decidersi a uscire dalla semplicistica alternativa tra protezionismo e libero scambio per capire che dobbiamo progressivamente costruire un sistema di regole mondiali in grado di premiare il valore sociale ed ambientale delle filiere e riportare l’economia al servizio della persona.