Perché cambiare la legge sul fine vita . Modifiche calibrate per fare la differenza
Il Parlamento ne sta prendendo consapevolezza: la legge sul fine vita, attesa all’esame del Senato dopo il varo alla Camera in primavera, esige un approfondimento serio e un confronto vero per la delicatezza della materia, il rilievo dei dubbi tecnici, etici e clinici tuttora aperti sul testo e la distanza delle posizioni in campo per una norma che richiede invece una larga condivisione tra ispirazioni culturali radicate nel Paese prima che tra partiti. Giovedì e ieri «Avvenire» ha offerto ampia documentazione per affrontare questo snodo nevralgico con la dovuta maturità. Aggiungiamo oggi il contributo dei presidenti di due importanti associazioni come Scienza & Vita (il giurista Alberto Gambino) e Movimento per la Vita (il medico e deputato Gian Luigi Gigli). Sul piano parlamentare, intanto, ieri Maurizio Lupi (Ap) ha dichiarato che «noi questa legge così com’è scritta non la votiamo» mentre Matteo Renzi ha confermato il supporto del Pd e Alessandro Di Battista (M5S) ha parlato di «legge sacrosanta».
Si rafforza la spinta politica, sorretta anche da finalità elettorali, per approvare in via definitiva il disegno di legge sul cosiddetto biotestamento senza nemmeno discutere di quelle modifiche necessarie per evitare derive verso prassi di abbandono terapeutico, che così saranno lasciate al giudizio spesso contrastante degli interpreti magistrati. Su queste stesse pagine, giovedì 30 novembre, Francesco Ognibene ha indicato dieci punti punti delicati o dolenti del testo varato alla Camera. Qui se ne intendono segnalare almeno sei, che richiedono necessariamente una messa a punto. E il nostro è un appello alla ragionevolezza.
Primo. All’art.1, la disposizione sulla nutrizione e idratazione artificiali (Nia), non prevedendo alcun vincolo che la limiti solamente a situazioni cliniche di fine vita, sarà fruibile, almeno in linea di principio, da chiunque decida di non alimentarsi o idratarsi artificialmente, per lasciarsi morire. Essa si applica anche a casi di particolare precarietà esistenziale, che tuttavia non sono affatto terminali e non sono tenuti in vita da alcun intervento terapeutico intensivo. Si potrebbe fare l’esempio di una persona anoressica: forse che l’eventuale rifiuto dell’alimentazione da parte di un simile malato dovrebbe essere recepita come una sua scelta libera e, in quanto tale, risultare insindacabile da parte del medico? Crediamo ovviamente di no. Ma in base all’attuale testo del ddl questa conseguenza è un rischio concreto. Pertanto urgerebbe una correzione che eviti tale deriva applicativa. Ci sembra anche che sia una inutile 'forzatura' voler definire per legge cosa debba considerarsi trattamento sanitario e cosa no. La persona titolata a operare tale valutazione è senz’altro il medico, in ragione della sua competenza professionale. Dunque, si lasci a lui almeno il compito di giudicare, nella concreta situazione clinica, se le modalità e i contesti della Nia assumano le caratteristiche di un tale trattamento.
Secondo. All’art. 2, si stabilisce un dovere («deve») per il medico, del tutto indipendente dalla volontà (e quindi dal consenso) del paziente. Alla luce di questa premessa, risulta eccessiva e inaccettabile la perentorietà del divieto per il medico di ricorrere a trattamenti sproporzionati, senza che sia tenuta in alcun conto la volontà del malato. Si consideri, ad esempio, il caso di un giovane malato (un papà, una mamma) con una breve aspettativa di vita, cui un intervento chirurgico – valutato come «sproporzionato» per i rischi che comporta, ma comunque potenzialmente efficace – sia l’unico mezzo in grado di allungare i suoi giorni, permettendogli così di adempiere importanti doveri o incombenze. Si dovrebbe precludere per legge a questo malato la possibilità di ricorrere a tale opportunità o non bisognerebbe piuttosto garantirgli libertà di scelta?
Terzo. Risulta molto problematica anche l’espressione «Nei casi di paziente con prognosi infausta a breve termine o di imminenza della morte»; il concetto di «prognosi infausta a breve termine» si presta a evidenti ambiguità, anche alla luce delle ampie definizioni di terminalità proposte dalla letteratura medica più recente. La prevedibilità della morte, infatti, fa riferimento a percentuali statistiche differenti (a sei mesi, a un anno o addirittura, secondo alcune posizioni di area anglosassone, a due anni). C’è poi l’espressione «(il medico) deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure» che risulta del tutto incongrua. Le cure, infatti, non si identificano con le sole terapie, includendo anche la palliazione e ogni profilo di assistenza, così suggerendosi quasi l’idea che a un certo punto il paziente possa essere abbandonato. Cosa che riteniamo inaccettabile.
Quarto. Il tema affrontato dall’art. 3 (Trattamento di minori e incapaci) è di particolare delicatezza. È condivisibile l’intento di fondo della norma, cioè assicurare che questi soggetti 'deboli', ma comunque in grado di esprimere il proprio punto di vista sui trattamenti cui sottoporsi, debbano effettivamente essere sentiti. Ma nel suo insieme, l’articolo finisce per ribaltare un principio basilare: quello per cui minori e incapaci sono titolari di un diritto alla vita e alla salute che non può essere compromesso per decisione di chi li rappresenti. La salvaguardia di tale diritto è anzitutto in carico al medico, che lo attua in base ai criteri di appropriatezza dell’attività medica (ad esempio, il genitore di un neonato che manifesti problemi patologici, non può certo rifiutare la tutela della sua salute o della sua vita). Ma ciò non è previsto nell’attuale formulazione del ddl.
Quinto. Per la redazione delle Dat – a garanzia dell’autonomia personale – occorre effettiva informazione medica. L’attuale testo lo sottolinea all’art. 4, quando recita «e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte». Purtroppo, però, tale precisazione rimane soltanto un mero auspicio, non essendo previsto nel testo alcun suo riflesso sulla validità delle Dat. Emerge perciò con forza, a nostro parere, l’assurdità (rischio di incostituzionalità?) di una tale lacuna nel testo attuale, laddove la redazione delle Dat, pur sempre rilevanti ai fini di condotte mediche attive ed omissive, e con possibili conseguenze per la vita e la salute del soggetto interessato, possa assumere rilievo senza essere vincolata, in qualche forma, all’informazione (rispetto ai quadri clinici pertinenti, alle alternative terapeutiche disponibili, alle risorse della medicina palliativa, alle conseguenze delle scelte) del soggetto medesimo. Peraltro, il coinvolgimento diretto del medico potrebbe garantire, oltre alla necessaria informazione, anche la verifica del fatto che il contenuto delle Dat non sia condizionato da patologie depressive o psicotiche, né da 'pressioni' varie, orientate alla rinuncia alle terapie.
Sesto. C’è infine la questione della vincolatività delle Dat per il medico, prevista dall’art. 4, salvo i tre casi di mitigazione previsti (Dat incongrue, non corrispondenti alla condizione clinica attuale, disponibilità di terapie nuove). Suggeriamo che, ai casi in cui il medico «non ha obblighi professionali» verso la richiesta del paziente, debba aggiungersi anche il caso in cui la richiesta concerna l’interruzione di un trattamento terapeutico che il medico ritenga attualmente proporzionato. Questo, peraltro, stempererebbe uno dei punti di maggior attrito della normativa in discussione, da una parte salvaguardando il diritto del medico ad agire secondo scienza e coscienza, dall’altro non impedendo al paziente di vedere comunque accolte le sue richieste, pur se attraverso un altro sanitario. Ci sembrano messe a punto necessarie e ragionevoli, praticabili con pochi puntuali emendamenti a una legge che traccerà, nel bene e nel male, le prassi sanitarie dei prossimi decenni.
*Presidente nazionale di Scienza & Vita