Stato e mercati. Fiducia nel futuro, la teoria monetaria moderna e il miglior Keynes
«I difetti più evidenti della società economica nella quale viviamo sono l’incapacità a provvedere un’occupazione piena e la distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi». Sembra una frase scritta oggi. Invece è del 1936 ed appartiene a John Maynard Keynes, l’economista che in un periodo di grave crisi ha scardinato alcuni dettami della teoria economica classica. L’assonanza ci fa comprendere come anche questo momento necessiti di teorie nuove, perché con le chiavi di lettura della teoria economica facciamo fatica a trovare soluzioni e a indicare piste per uno sviluppo nuovo e diverso. Sarà anche per questo motivo che a marzo 2020 papa Francesco convocherà ad Assisi giovani economisti da tutto il mondo: forse la freschezza delle loro idee, unita alle competenze che si stanno formando, potrebbe aprirci a nuove letture, a nuovi sentieri. Intanto, mentre assistiamo a tanto dissenso verso le politiche economiche attuali, poche sono le voci propositive. Tra queste c’è sicuramente la Modern Monetary Theory (MMT), della quale "Avvenire" si sta occupando in modo approfondito da alcune settimane, attraverso un ampio dibattito che si avvale di una serie di rilevanti contributi da differenti prospettive di ricerca. A questa teoria va senz’altro il merito di aver riportato al centro alcune questioni, come quella della disoccupazione, e di aver appunto aperto un dibattito serio.
Entrando nel merito dell’analisi, concordo con molte delle osservazioni fin qui fatte da diversi economisti, a partire dal rilievo sollevato da Giuseppe Pennisi, secondo il quale la teoria sembra pensata per un mondo in cui non ci si debba relazionare con l’estero, con i tassi di cambio e con le possibili svalutazioni della moneta. Se anche dovessimo non considerare questo aspetto specifico, mi trovo in accordo con Leonardo Becchetti sul fatto che liquidità monetaria e crescita non vanno necessariamente di pari passo. E qui torno a dare la parola a Keynes: «Se ci venisse la tentazione di asserire che la moneta è la bevanda che stimola l’attività del sistema, dovremmo rammentarci che vi possono essere parecchi diaframmi fra il bicchiere e le labbra. Infatti, mentre può attendersi che un aumento della quantità di moneta riduca, ceteris paribus, il saggio di interesse, ciò non accadrà se le preferenze di liquidità del pubblico aumentano più della quantità di moneta; ...e mentre può attendersi che un aumento del volume di investimento accresca, ceteris paribus, l’occupazione, può darsi che ciò non accada se la propensione a consumare si contrae».
Le variabili in gioco sono tante, e la Teoria monetaria moderna non brilla per una sistematicità di trattazione, per un rigore formale e per una verifica delle proprie ipotesi con procedure tipiche del rigore accademico. In Italia di liquidità ce n’è abbastanza e forse troppa: secondo gli studi dell’ABI e della Banca d’Italia dei 4.287 miliardi della ricchezza degli italiani, circa 1.370 sono fermi nei conti correnti, e cioè il 32%. Nel 2005, eravamo al 23%. Sembra che gli italiani non investano per paura. Se poi riflettiamo sul fatto che per il ciclo 2014-2020 abbiamo speso solo il 23% dei 75 miliardi dei fondi europei che abbiamo a disposizione, c’è qualcosa che non va. Non è l’incremento della moneta in circolazione che di per sé aumenta investimenti e occupazione. E qui veniamo ad un altro punto che Keynes aveva intuito bene: la fiducia nel futuro e nelle istituzioni è più importante di dati e previsioni razionali, rispetto alle scelte di consumo e di investimento: «Una larga parte delle nostre attività positive dipende da un ottimismo spontaneo piuttosto che da un’aspettativa in termini matematici, sia morale, che edonistica o economica. La maggior parte, forse, delle nostre decisioni di fare qualcosa di positivo, le cui conseguenze si potranno valutare pienamente soltanto a distanza di parecchi giorni, si possono considerare soltanto come il risultato di tendenze dell’animo, di uno stimolo spontaneo all’azione invece che all’inazione».
I cosiddetti animal spirits che governano le decisioni sono anche quelli alla base della fiducia dei cittadini nella moneta, che non possiamo considerare come un semplice monopolio dello Stato, secondo i dettami della MMT. Sappiamo bene, e la storia di Paesi in cui la svalutazione della moneta ha portato al default ce lo ricorda, che il valore della moneta è legato anche e soprattutto alla fiducia e alle aspettative nei confronti di uno Stato. E per quanto riguarda la possibilità di governare la moneta attraverso lo Stato, anziché le Banche centrali, tale ipotesi si poggia sul fatto che lo Stato sia ritenuto il custode degli interessi comuni, mentre le banche di quelli privati. Che lo Stato pensi a tutti e che il mercato sia per l’interesse di alcuni.
Ma così sopravvalutiamo lo Stato, come se non fosse governato anche da interessi di parte e a volte di breve periodo, e svalutiamo il mercato come se non fosse nato per permettere la circolazione della ricchezza. Innanzitutto bisogna distinguere tra banche centrali, istituzioni che governano l’emissione di moneta, e le banche private che la immettono nel circuito. In secondo luogo, è molto probabile che tali istituzioni abbiano bisogno di una riforma: difficilmente la ricerca del profitto e l’operare per il bene comune possono stare insieme. Andrebbe rivista la configurazione e la mission delle banche, in un’ottica di finanza a servizio del bene comune. È necessario che tutti ci prendiamo cura della finanza, che nascano comitati etici dentro le banche per valutarne l’operato, ma di buone banche e buona finanza abbiamo bisogno.
In conclusione, è auspicabile che nascano nuove teorie, ma forse l’Italia, e anche l’Europa, necessitano, prima di tutto di ritrovare una coesione, una fiducia nelle istituzioni e nel futuro. Una fiducia che può passare attraverso una grande opera di semplificazioni normative – in Italia oggi ci sono 12 diverse tipologie di licenziamenti e 9 modalità differenti per poter andare in pensione, solo per citare alcuni esempi, perché chiunque negli ultimi anni abbia emanato leggi e decreti lo ha fatto aggiungendo tasselli, e non secondo un disegno uniforme. E questo va a sostegno della tesi che non sempre lo Stato ha una visione lungimirante. Forse abbiamo bisogno di riscoprire il grande principio costituzionale della sussidiarietà: l’iniziativa economica è dei privati, lo Stato dovrebbe tutelarne la libertà, garantire l’equità e sostenere chi è in difficoltà. E non sostituirsi.