La Giornata mondiale. Missione è cambiare il cuore del mondo
La missione ha bisogno di un cuore, che vuole il meglio per la vita degli altri. E di mani, di braccia, che lavorano su quel desiderio, perché non resti sogno ma diventi storia, memoria, comunità. Mani che sollevano chi è caduto, che si allungano in una carezza sul viso dello scoraggiato, mani unite nella preghiera. E che così si trasformano in grido, richiesta d’aiuto, impegno, ringraziamento. Mani che, sfiorando i grani del Rosario, regalano aria nuova al respiro dell’anima, a illuminare nella luce di Dio gioie e dolori che sono solo nostri e insieme di tutti.
Potrà sembrare strano ma la Giornata missionaria che si celebra oggi in tutto il mondo è innanzitutto un invito alla preghiera, perché, nella logica del Padre e dei figli che lo cercano con sincerità, tutto parte da lì. A maggior ragione nei giorni del Covid, quando il triste elenco dei morti e dei contagi fa da richiamo quotidiano alla nostra fragilità, diventa un faro acceso sul grande bisogno che abbiamo di rapporti sociali, di relazioni, sia singole sia comunitarie, con il nostro prossimo.
E con il Signore. «Eccomi, manda me», lo slogan dell’evento odierno non è allora che la risposta all’invito di uscire da se stessi per amore di Dio e quindi degli altri. È, per usare le parole del Papa, la chiamata a passare dall’io pauroso e chiuso all’io «ritrovato e rinnovato dal dono di sé». Perché nell’aritmetica della carità l’amore regalato si moltiplica e ci arricchisce nella misura in cui lo offriamo, rinunciando a tenerlo per noi soli. Così non esistono gesti, attenzioni, sguardi benevoli che non vengano ricambiati dieci, cento, mille volte tanto. Per capirlo basta ascoltare il racconto dei missionari che in questi giorni, dal vivo o attraverso uno schermo, ci hanno permesso di conoscere più da vicino la loro vita.
Padre Pierluigi Maccalli, per esempio, il religioso lombardo liberato dopo due anni trascorsi nelle mani degli jihadisti, non si è vergognato di ammettere di aver pianto e di essersi domandato dove fosse finito Dio. L’angoscia però ogni volta sembrava svanire o almeno concedeva una pausa quando 'sgranava' il Rosario 'di fortuna', è il caso di dire, che si era costruito intrecciando dei pezzi di straccio. Una 'corona' artigianale che poi ha voluto lasciare sulla tomba di una ragazzina africana, portata in Italia per curare una grava malattia a cui non è sopravvissuta. E chissà quante volte avrà pensato a lei durante i lunghi giorni del sequestro, quante lacrime avrà versato ricordandola, quant’era forte il desiderio di rivederla ancora.
Perché il Vangelo, e così la missione che punta a diffonderlo, chiama per nome, conosce i volti di chi lo annuncia e di chi lo riceve, crede nel valore della comunità, sa che la sapienza semplice dei piccoli può riorientare la direzione della storia. Si tratta di provarci insieme, tenendosi per mano, unendosi in un ideale girotondo di solidarietà e di occhi rivolti al cielo. Sguardi e voci come quelli dei bambini, un milione forse di più, che oggi in 80 Paesi almeno, moltiplicheranno le Ave Maria su iniziativa di 'Aiuto alla Chiesa che soffre'. Punto di partenza, una frase di Padre Pio, il santo di Pietrelcina e San Giovani Rotondo: «Quando un milione di bambini pregherà il Rosario, il mondo cambierà».
Ma il grido d’aiuto, anche il più umile e sincero che ci sia, da solo non basta, occorre consentirgli di aprire la strada agli aiuti concreti, di diventare servizio, solidarietà, condivisione. Nell’orfanotrofio kazako, come nel centro per bambini disabili della Siria, distribuendo catechismi in India o ristrutturando una casa per l’infanzia in Perù. Nella lotta alla fame, nell’impegno per garantire cure adeguate ai più poveri, nella battaglia contro l’analfabetismo e la dispersione scolastica. Perché la preghiera o diventa carità o non è autentica, e sbaglia chi separa o addirittura contrappone contemplazione e vita attiva. Dimensioni che invece sono facce della stessa medaglia, note di una melodia corale, piani magari differenti ma uniti da un ponte d’amore. Non a caso copatrona delle missioni è una suora di clausura: santa Teresa di Lisieux.
Voleva partecipare alla fondazione di un carmelo ad Hanoi, la giovane monaca, ma fu fermata dalla tubercolosi. Una malattia, che ne avrebbe spento l’esistenza fisica senza riuscire a fermare la sua sollecitudine, il suo desiderio più profondo: far conoscere a tutti l’amore di Dio, salvare le anime. È Teresina il simbolo stesso della missione, che chiede preghiera, e un cuore che voglia il meglio per gli altri. E mani e braccia che rendano quel desiderio autentico. Che lo facciano diventare vita.