Hanno tirato pietre, poi hanno dato fuoco alle abitazioni con un combustibile particolarmente difficile da contrastare. Un chiaro indizio della volontà premeditata di provocare i massimi danni. Quindi, hanno inseguito i cristiani in fuga dalle fiamme – fossero anche donne e bambini – sparando con pistole, mitragliatori e un lanciagranate. Scene di bestiale violenza quelle che sabato scorso si sono svolte a Gorja, nel Punjab orientale pachistano, che è bene non fare scomparire troppo presto dalla labile memoria mediatica che ci caratterizza. Quelle nove vittime, martirizzate in nome di una folle intolleranza, reclamano che il loro sacrificio sia riproposto senza timori di suscitare fastidio o disagio, contro le facili amnesie di chi cerca d’ignorare ciò che avviene in Asia a spese delle minoranza più debole, esposta e indifesa. Che le accuse di blasfemia – aver stracciato una copia del Corano durante un matrimonio – siano del tutto inventate e pretestuose per tentare di giustificare il pogrom non vi è neppure il bisogno di sottolinearlo. E, comunque, nessun pur ipotetico gesto di dissacrazione potrebbe dare la benché minima motivazione a un massacro contro famiglie inermi. «Attacchi insensati», li ha infatti definiti Benedetto XVI nel suo messaggio al vescovo di Faisalabad, in cui invita tutti i cristiani del Pakistan a «non farsi scoraggiare nei propri sforzi di contribuire a costruire una società che, con profondo senso di fiducia nei valori religiosi e umani », sia caratterizzata «dal rispetto reciproco tra i suoi membri». E bene ha fatto il ministro degli Esteri Frattini a chiedere che «si svegli finalmente la coscienza dell’Unione europea e delle Nazioni Unite», ponendo la libertà di religione come valore assoluto. Non sembra nemmeno un caso che nelle stesse ore in cui da Islamabad giungevano le tragiche notizie degli assalti, si apprendesse che in India sono stati assolti i presunti mandanti delle stragi di cristiani compiute nell’agosto 2008 nell’Orissa, sempre in seguito ad accuse montate ad arte contro la comunità residente nello Stato. L’accostamento dei due casi, pur molto diversi, permette di evidenziare quella che sembra una tendenza in atto: l’essere le minoranze cristiane diventate in alcuni Paesi l’obiettivo privilegiato dei radicali e dei fanatici alla caccia di un gruppo ben identificabile su cui scaricare tensioni e pulsioni, al quale addossare responsabilità per situazioni di crisi, secondo uno schema del capro espiatorio ben noto in tanti fasi della storia, in moltissime culture. Frange fondamentaliste islamiche (come in Pakistan e in Iraq) o indù (come nel subcontinente indiano) prendono a bersaglio i pacifici cristiani che in nulla turbano credenze, beni o equilibri sociali delle maggioranze locali, quando in realtà ben altre sono le fonti di instabilità o di crisi. Spesso il 'collegamento' con l’Occidente, ritenuto in qualche misura seconda 'patria' dei credenti in Cristo qualunque sia la loro origine nazionale, contribuisce a farne ideali figure di 'nemici', forse anche perché in genere impermeabili alle predicazioni settarie di odio e di violenza. Tutto ciò dovrebbe fare sì che l’Europa dimostri meno pavidità e superi quel non espresso pregiudizio negativo, quasi che essere cristiani in quei Paesi sia un bizzarro esercizio rischioso e che quindi le persecuzioni un po’ i fedeli se le siano cercate – come a bassa voce si biasima chi si infortuna praticando un hobby stravagante e pericoloso. A qualcuno potrà non piacere, ma difendere i cristiani oggi, dal Libano alla Cina, significa sostenere una salutare battaglia per i diritti e le libertà fondamentali, promuovere la tolleranza e seminare per la democrazia e lo Stato di diritto. Tutte cose di cui ci piace discettare. Ma che chiedono azioni precise e decise. Anche, e soprattutto, davanti a innocenti bruciati vivi in nome di una distorta idea della religione.