Opinioni

Origini lontane ma sentimento comune con Fo, Gaber e Celentano. La Milano cantata (anche) da Jannacci una città capace di accogliere e unire

Davide Parozzi martedì 2 aprile 2013

​Ci sono alcune immagini che, in questi giorni di dolore per la morte di Enzo Jannacci, compaiono spesso in televisione e sui giornali. Immagini del cantautore-cardiochirurgo con Giorgio Gaber, Dario Fo, Adriano Celentano. Artisti e intellettuali di genio, accomunati da due cose: cantare Milano e avere radici lontano da essa. Dei quattro, Jannacci era il più milanese in senso stretto. "Solo" il ramo di suo padre veniva dalla Puglia. Degli altri, uno (Gaber) era nato in città ma con solide origini triestine, l’altro (Celentano) è figlio di immigrati pugliesi saliti al Nord per lavorare. Dario Fo è lombardo del lago Maggiore, nato vicino a Leggiuno. Eppure, la fortuna di tutti e quattro nacque e si consolidò mettendo in musica una città, Milano, che sentivano loro e non solo perché ci vivevano. Ciò che descrivevano non era un puro luogo geografico, ma qualcosa di più profondo, di interiore, una grande realtà che sapeva accogliere chi arrivava, o vi nasceva avendo radici familiari distanti. Certo accanto al Cerutti Gino di Gaber – Drago del Giambellino – stavano gli emarginati di Vengo anch’io no tu no e di El purtava i scarp del tennis, con la loro solitudine dolente, ma spiccava un vissuto che, pur con le difficoltà quotidiane, sapeva trovare forti spunti di umanità e speranze di un domani migliore. Nessuno era soltanto un numero, un invisibile comprimario della commedia umana, ma ciascuno – anche in piccolo – poteva diventare protagonista in positivo come il Ragazzo della via Gluck. Milano era una città capace di amalgamare, di fare sintesi prendendo il meglio da ognuno – fosse nato in Friuli o in Sicilia – e mettendolo al servizio di un progetto più grande in cui potersi riconoscere. Erano gli anni Sessanta, si dirà. Ed è vero. Un periodo in cui la città che si faceva metropoli aveva una chiara visione di sé e del suo futuro. Sapeva dove andava e sapeva quello che voleva. Le fabbriche – dall’Innocenti all’Alfa Romeo fino a quelle più piccole – erano tra i simboli di questa consapevolezza. Una certezza di sé, del proprio valore e delle proprie possibilità che non venivano vissute in una difesa egoista di quanto posseduto, ma messe ogni giorno in gioco in un continuo reinventarsi. Coraggio e lungimiranza, dunque. Ma con un un piano ulteriore: quello dei valori. La Milano di quegli anni era una città orgogliosa delle sue radici immateriali. Era consapevole del proprio grande deposito spirituale e morale e questo la rendeva capace di accogliere e unire in una sorta di "melting pot" in salsa meneghina. Senza scorciatoie o facili buonismi, ma attenta a offrire a chiunque una possibilità. Proprio perché consapevole di sé, sapeva andare incontro agli altri; salda sulle sue gambe apriva le braccia a chi arrivava da lontano. E lo faceva sentire tanto compreso da spingerlo a cantarla senza timore di essere una voce fuori dal coro. L’addio di Jannacci riaccende la nostalgia di questa capacità. I tempi sono diversi e la nebbia che ci circonda è fitta, soprattutto in questo momento di crisi economica e politica che attanaglia l’intero Paese. La Milano delle fabbriche è diventata la Milano da bere e poi si è scoperto che qualcuno se l’era bevuta per davvero e fino in fondo. E ora sembra avanzare a piccoli passi, incerta sulla direzione da prendere, soprattutto indecisa sulle sfide portate dalle nuove generazioni di milanesi le cui radici affondano molto più a Sud. Confusa anche su quella ricchezza non materiale che aveva contribuito a renderla grande. Solo riscoprendola sulla scia di luminosi testimoni e grandi pastori, che non sono mai mancati, la città sarà in grado di restituirsi a se stessa, capace, accogliente e feconda. In grado di reindossare quelle scarp del tennis che, come tutti sanno, servono anche a correre.