Migrazioni: i doveri della politica. Alzare lo sguardo
L’immagine che rimbalzava nella tarda mattinata di ieri su numerosi siti internet racconta una brutta storia: la storia di un’Unione che è tale soltanto di fatto, di un’Europa non dei popoli ma dei piccoli Stati, che non riesce ad avere le spalle abbastanza larghe per farsi carico di un problema grande, quello dell’aumento dei flussi migratori, ma non così grande da non essere gestibile al meglio, se affrontato in una logica comunitaria e solidale.
La foto ritrae l’aula del Parlamento di Strasburgo semivuota (più vuota che semi: circa 30 presenti su un totale di 751). All'ordine del giorno c’era il consuntivo del semestre di presidenza maltese. Ma c’erano appunto soltanto una sessantina di orecchie ad ascoltare il primo ministro di Malta Joseph Muscat quando ha affermato che «sulle migrazioni, con tutte le buone intenzioni e le dichiarazioni, quando si tratta di una solidarietà effettiva, noi, gli Stati membri dell’Ue, dovremmo vergognarci tutti di quello che abbiamo fatto», perché in questi anni «Paesi come l’Italia hanno visto centinaia di migliaia di bambini, donne e uomini raggiungere le loro coste» mentre «questa Europa, su questo argomento, è un fallimento».
Una brutta storia, si diceva, che parla d’indifferenza, di inaffidabilità (le intese raggiunte la domenica vengono rinnegate il lunedì, come ha dimostrato il trilaterale Francia-Italia-Germania di Parigi) e di calcoli elettorali. Non sappiamo dire se giusti o sbagliati ai fini del risultato delle urne, ma siamo convinti che tali calcoli siano lontani dalla politica autentica, la quale - per dirla con uno dei padri fondatori e sognatori dell’Europa unita, Alcide De Gasperi - non guarda alle prossime elezioni, ma alle prossime generazioni.
Al contrario, il tema delle migrazioni interpretato in chiave di paura e di chiusura è stato il comune denominatore delle ultime tornate elettorali in molti Stati membri della Ue, dall’Olanda alla Francia, alle presidenziali in Austria. E malgrado in tutti questi casi l’ondata nazionalista e xenofoba sia stata respinta dalla maggioranza degli elettori, a ogni appuntamento con le urne lo spauracchio si ripropone, puntuale. I mezzi corazzati austriaci piazzati al confine del Brennero sembrano soltanto l’ultimo episodio in ordine di tempo nella medesima ottica, come ha sottolineato ieri il presidente della Provincia autonoma di Bolzano, Arno Kompatscher: «Vienna si prepara alle elezioni e le disposizioni sul Brennero vanno lette in parte come un messaggio interno, direi di tipo elettorale». Nulla di nuovo, insomma. Ma molto di desolante e pochissimo di lungimirante.
Eppure - nelle stesse ore in cui l’Austria posizionava le sue truppe, gli eurodeputati latitavano e la Commissione Europea varava il suo «piano d’azione» sulle migrazioni, la cui reale efficacia si rivelerà solo nei prossimi mesi - a Roma, nella Sala della Regina di Montecitorio, il presidente dell’Inps Tito Boeri faceva risuonare parole e previsioni in realistica controtendenza (che i lettori di questo giornale conoscono già bene): con un’ipotetica chiusura delle frontiere l’Istituto di previdenza rischierebbe di perdere 38 miliardi di euro da qui al 2040 e «di distruggere il nostro sistema di protezione sociale».
Affermazioni contestate da diversi partiti nostrani. Ma con i numeri non si litiga. E nemmeno con i fatti, i quali ci dicono che gli italiani fanno sempre meno figli, non esistono reali politiche di sostegno alle famiglie né di aiuto alla natalità. Insomma, siamo un Paese in crisi demografica e sempre più vecchio. E il resto del continente non sta meglio, come ebbe a sottolineare papa Francesco lo scorso anno quando, ricevendo il Premio Carlo Magno, parlò di «Europa nonna», invecchiata e sterile.
Questo corpo sociale indebolito ha bisogno di essere innervato da energie fresche, che continuino ad alimentare i vasi sanguigni di previdenza, assistenza, sanità eccetera. E lo scopo può essere perseguito, beninteso sempre nel rispetto della legalità e con attenzione alla sicurezza dei cittadini, con una giusta strategia dell’integrazione a livello europeo. Non è buonismo, questo. È politica.
Una politica che, a Bruxelles come nelle altre capitali d’Europa, dovrebbe cominciare a ragionare in una prospettiva almeno «da qui al 2040» anziché da qui alle prossime elezioni. Ammesso e non concesso che il metodo per vincerle sia davvero quello di alzare reticolati di filo spinato intorno a noi.