La sfida necessaria. Migrazioni, così è possibile coniugare umanità e legalità
Il dibattito di quest’estate sulle Ong che salvano le vite dei profughi nel Mediterraneo è stato a tratti acceso e ricco d’incomprensioni. Non si vuole qui riaprire un nuovo capitolo della discussione, ma provare a indicare – anche alla luce dei quattro verbi (accogliere, proteggere, promuovere e integrare) richiamati da papa Francesco nel suo Messaggio per la Giornata dei migrante e del rifugiato 2018 – qualche soluzione a una crisi, quella migratoria, da cui il nostro Paese è toccato in maniera rilevante.
Di fronte alla sofferenza e alle aspirazioni a un futuro migliore di tanti migranti e alle domande dell’opinione pubblica italiana c’è bisogno di risposte e non di nuove polemiche. Uno dei rilievi che più preoccupano le organizzazioni, le associazioni e le persone che hanno fatto del salvataggio e dell’accoglienza ai migranti un punto fermo del loro operare è quello delle condizioni disumane, fuori da ogni rispetto dei diritti umani, in cui vivono migliaia di migranti nei 'campi di raccolta' in Libia.
Le testimonianze a questo proposito, sia di chi è riuscito a partire giungendo in Europa, sia di giornalisti o operatori delle agenzie internazionali, sono inequivocabili. Nella situazione di Stato fallito, qual è quella della Libia oggi, tra l’altro mai firmataria della convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati del 1951, non è sostenibile vivere in quelle condizioni, soprattutto per le categorie di persone più vulnerabili. In più c’è la drammatica questione dello sfruttamento dell’immigrazione da parte di organizzazioni criminali che ne hanno fatto uno dei business più redditizi, costringendo le persone a vivere situazioni degradanti, durante i viaggi e nei periodi di permanenza in Libia.
Certamente si deve trovare una via per stabilizzare la Libia politicamente e militarmente perché organizzazioni come l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur/Unhcr) e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) possano finalmente entrare nel Paese e svolgere il loro lavoro di protezione dei migranti. È sempre più urgente e necessario che si creino le condizioni per una presenza di tali organizzazioni sul suolo libico.
Ma la domanda maggiore è legata dalla tanta illegalità che avvolge il fenomeno migratorio. La risposta più semplice è perché non esistono a oggi vie legali per l’immigrazione in Europa da Paesi più poveri, se non per alcune categorie o per periodi stagionali. L’Italia, ad esempio, ha un decreto flussi annuale che riguarda principalmente la conversione dei permessi di soggiorno per motivi di studio e i visti per i lavoratori stagionali. Ridottissima è la quota per i cosiddetti ingressi non stagionali. Nel 2017 il decreto prevede 30.850 ingressi, di cui la stragrande maggioranza è appunto per le conversioni di permesso di studio a lavoro e per i lavoratori stagionali: solo mille sono destinati a lavoro subordinato per lavoratori già formati, mentre altri 2.400 sono destinati a lavoro autonomo e riguardano imprenditori disponibili a investire almeno mezzo milione di euro, una cifra altissima.
Dal 2011 i decreti flussi annuali non hanno più contemplato la possibilità di entrare regolarmente per motivi di lavoro subordinato, se non - appunto - in numeri irrisori. Il mondo del lavoro in Italia, in tutte le sue componenti, compresa quella delle famiglie italiane che cercano colf e badanti, ha necessità altamente maggiori. Lo scorso anno sono giunte in Italia, per la via del Mediterraneo centrale, cioè senza alcun tipo di visto o di permesso, 181.000 persone. Dunque, esiste una grande sproporzione rispetto alla via legale.
Per evitare l’illegalità occorrerebbe promuovere un vero e proprio decreto flussi, molto più ampio di quello attuale, che tenga conto delle esigenze del mondo del lavoro e che si rivolga specificamente ai Paesi da cui provengono le persone che oggi sono 'detenute' in Libia in attesa di intraprendere i viaggi nelle mani dei trafficanti. C’è la necessità di negoziare accordi diretti con i Paesi di provenienza, chiedendo allo stesso tempo di limitare le uscite dei loro cittadini. Negoziare con tali Stati non è facile, ma lo sforzo va mantenuto con tenacia: a sud della Libia è realmente possibile trattenere i flussi in cambio di vere politiche di co-sviluppo.
Per tali ragioni vanno rafforzate le politiche di cooperazione con i Paesi terzi. Su questo piano, l’Italia dal 2012 ha iniziato a fare di più, con un aumento progressivo dell’aiuto pubblico allo sviluppo, riorientandolo verso le aree di origine dei flussi. Si tratta di consolidare tali progressi, rendendo permanente la crescita dell’aiuto italiano ed europeo, aggiungendo agli aiuti cospicui investimenti: un messaggio euroafricano di speranza per le giovani generazioni del sud. a varietà delle persone giunte in Italia insegna che la complessità dei motivi per cui sono partite (asilo politico, profughi ambientali, migranti economici e altro), molto spesso si ritrovano e si sovrappongono nella stessa vicenda personale.
Un senegalese, ad esempio, chiede di venire in Italia perché il deserto che avanza non gli permette più di coltivare la sua terra. Del resto la concessione dei permessi di soggiorno per motivi umanitari, talvolta anche con decreti per protezione temporanea, caratteristica dell’esperienza italiana, ha rappresentato una delle risposte più lungimiranti anche sotto il profilo della sicurezza. Anche la questione del resettlement - come recentemente suggerito dalla cancelliera Merkel - cioè del reinsediamento per quote nei vari Paesi europei dei rifugiati dalla Siria e dall’Iraq, in transito in Libano e in altri Stati dell’area mediterranea, dovrebbe essere allargata nei numeri. A oggi si è a 22mila. Si potrebbe benissimo arrivare a 40mila come ipotizzato da Merkel stessa, quindi venire incontro a persone che vivono situazioni di grande sofferenza e allo stesso tempo condividerne il 'peso' tra i Paesi europei in misura maggiore. Aggiungo che questa operazione di reinsediamento potrebbe riguardare anche altri Paesi come la stessa Libia, il Sudan e l’Etiopia, dove sono presenti un gran numero di profughi.
C'è poi la grande questione dei ricongiungimenti familiari. Molti ragazzi che giungono con i barconi sulle nostre coste chiedono di essere ricongiunti alle loro famiglie che vivono già in Europa. Finora non è possibile ottenere tale ricongiungimento se non nei casi del coniuge, del figlio minorenne o di genitori anziani. Categorie troppo ristrette per culture in cui la famiglia è un concetto molto più largo. Le esperienze di ricongiungimento familiare sono le più felici perché le famiglie che accolgono, in genere, sono già integrate nel Paese europeo in cui vivono. L’Italia, con un semplice decreto potrebbe allargare tale categoria ed evitare molta illegalità favorendo l’integrazione.
C’è poi il sistema, utilizzato soprattutto nei Paesi anglosassoni o nordamericani, della sponsorship, un tempo prevista nel nostro ordinamento e poi cancellata. È un sistema molto efficace per creare vie legali e per non pesare sulle casse dello Stato. Imprenditori, famiglie, artigiani, parrocchie, associazioni o qualsiasi altro ente o categoria che volesse sponsorizzare, a suo carico e per motivi legali e validi, la presenza di immigrati potrebbe farlo a proprie spese e sotto la propria responsabilità. Con lo stesso strumento potrebbero fare ingresso quei familiari che non rientrano nei criteri del ricongiungimento. C’è, infine, la via dei corridoi umanitari che prevede il rilascio di visti, a territorialità limitata, per la protezione umanitaria a persone in stato di vulnerabilità, com’è accaduto in Italia e in Francia per i profughi della guerra in Siria e per quelli del Corno d’Africa. Anche i corridoi umanitari sono interamente sponsorizzati da privati o da associazioni, come nel caso italiano la Cei, attraverso Caritas e Migrantes con i fondi dell’8 per mille, la Comunità di Sant’Egidio, la Federazione delle Chiese evangeliche.
Siamo di fronte a un fenomeno epocale, la globalizzazione ha provocato grandi spostamenti di popolazione in ogni parte della terra. L’Italia in questi ultimi anni - per la sua posizione geografica e per essere parte del continente che ha fatto del diritto, della pace e della solidarietà i suoi princìpi - ha conosciuto un forte afflusso di persone che cercano un futuro migliore per i motivi più diversi. Siamo stati un Paese protagonista della prima grande ondata migratoria dell’epoca moderna, quella degli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento, ma come migranti.
Oggi viviamo la seconda grande ondata migratoria, cominciata negli anni Settanta del Novecento, con un altro ruolo, quello di Paese che accoglie. I tempi cambiano, l’Italia è cresciuta fino a diventare una delle otto grandi potenze industriali del mondo. Ha assunto un ruolo di responsabilità a livello mondiale. Tra queste responsabilità c’è anche quella di gestire un flusso migratorio rilevante, ma non eccezionale. Lo facciamo anche con un forte sostegno economico dell’Europa. Quello che manca, in questi ultimi tempi, è il sostegno politico e la solidarietà dei Paesi fratelli. Fare appello all’Europa è quindi fortemente necessario perché ne siamo la frontiera meridionale. Ma anche noi possiamo fare la nostra parte per trasformare l’illegalità in legalità, così come abbiamo dimostrato di sapere essere un paese di grande generosità e umanità. Qui ci sono alcune proposte che possono aiutare - come ha auspicato più volte Marco Tarquinio - a coniugare l’umanità e la legalità, perché senza umanità non c’è rispettabile legalità.