Opinioni

Proteste. Mezzo mondo scende in piazza: rivoluzione o effervescenza?

Marco Dotti venerdì 22 novembre 2019

Manifestanti antigovernativi a Hong Kong (Ansa)

Ammettiamolo: non siamo pronti. Non siamo pronti a capire quanto sta accadendo attorno a noi, nel mondo. Hong Kong, Caracas, Quito, Santiago, Baghdad, Teheran, Haiti, Beirut, Islamabad, Parigi, Barcellona, Londra con Extinction Rebellion. La lista non si ferma e anche in Italia qualcosa si muove: Bologna, Modena e chissà se – in che forma, o se avranno forza – altre persone, altre piazze seguiranno. Difficile tenere il passo. Persino le ragioni che portano in strada o nelle piazze milioni di persone sono diverse. Talvolta radicalmente diverse. Vorranno tutti la stessa cosa, nello stesso tempo, nello stesso luogo? C’è chi scende in strada contro la corruzione dei governi, chi va in piazza contro l’inflazione o l’austerità economica, chi perché sente o vede minacciata la propria condizione sociale. Poi c’è chi vuole, semplicemente altro. Ad esempio un altro mondo, un’altra economia, un rapporto diverso con le cose di quell’economia e di quel mondo e chiama tutto questo 'ecologia, giustizia, lotta per il clima'. Occidente e Oriente, con differente intensità e toni che, cambiando latitudine e sistema politico, dal festoso inevitabilmente degradano nel drammatico, sembrano muoversi in questa medesima, anche se pulviscolare circolarità dove mezzi e fini non convergono. O convergono al punto tale che non li distinguiamo piu.

Molti analisti hanno filtrato il tutto attraverso la lente della crisi di sistemi sempre più improntati alla disuguaglianza. Poca partecipazione, poca mobilità sociale, un enorme divario tra orizzonti d’attesa, possibilità e ricchezza, il capitalismo in crisi... Ma anche così le cose non tornano perché i fattori scatenanti, che siano l’aumento del biglietto dei mezzi pubblici in Cile o una presunta tassa su WhatsApp in Libano, sembrano più coincidenze pratiche che convergenze comuni verso un’idea di fondo. E come tali si perdono, quasi subito, nel dopo di proteste che – la storia talvolta è maestra – possono improvvisamente diventare altro. Ma stavolta sembra che questi movimenti non vogliano proprio porsi il problema di che cosa diventare. Se le cose stanno così, ci troviamo al grado zero della disintermediazione. Forse per questo tali movimenti globali sono, letteralmente, 'leaderless protest movements', movimenti acefali e senza leader, organizzati orizzontalmente sui social media, e alla disperata ricerca di una sfera pubblica in cui portare istanze e cahiers de doléance. Sfera pubblica che la disintermediazione, però, non contempla.

Il dramma, per ciò che si origina dalla rete e rivendica uno statuto di presenza, è uscire dal registro e dal mercato dei like (II Commodity market lo chiama Carlo Strenger) e accedere allo statuto del discorso. Ogni discorso per vivere ha bisogno di uno spazio pubblico. Questo spazio, anche così possiamo leggere il fenomeno, non è la rete. Lo spazio pubblico, allora, dov’è? A meno che, al di là delle singole petizioni, ciò che implicitamente chiedono i movimenti di protesta non sia proprio altro: la composizione di un nuovo spazio pubblico. Spazio che renda nuovamente possibile quella vecchia, ma inevitabile forma di intermediazione primaria che Habermas chiama agire comunicativo. Il problema, allora, davanti a una disintermediazione iniziale, è capire che cosa ne sarà dei soggetti portatori di quelle istanze. Quale agire uscirà – se uscirà – dai cheap talks delle conversazioni in rete? Questi movimenti di base si daranno una minima struttura, cambiando pelle, oppure, davanti alla crescente intensità delle risposte dei governi, si dissolveranno, rivelando una natura intrinsecamente effimera, tornando nel guscio della rete? La questione è aperta. Sul Times del 27 ottobre scorso, lo storico Niall Ferguson ha invitato a non sottovalutare la componente demografica e culturale della protesta, che ne determina anche il carattere radicalmente disintermediato. Per l’autore de La torre e la piazza, un libro sulle reti e le élites e la loro 'dialettica' per il controllo dell’egemonia e del potere, siamo davanti a una situazione di possibile caos inerziale, favorito proprio dalla presenza di giovani istruiti. Quando diciamo 'popolo', stiamo molto attenti. Perché parliamo di loro.

«Non a caso, in ogni Paese dove nello scorso anno è stata segnalata una protesta l’istruzione superiore è ai massimi storici», spiega Ferguson. Che cosa signifi- ca? Per Ferguson significa proprio che la rottura tra aspettative e realtà per coloro che sono diventati maggiorenni negli anni della crisi dei mutui subprime diventa una miscela doppiamente esplosiva. Baby sharks, li chiama causticamente Ferguson, ironizzando su una nota canzone. Piccoli squali. Ferguson esagera. Ma le proteste che stanno segnando il 2019 sono di fatto le prime nella nostra storia ad essere organizzate interamente via smartphone. Se le Primavere Arabe si muovevano ancora nel solco del computer, oggi siamo davanti a una disintermediazione di livello ulteriore. I derivati esistono in finanza, qui è tutto diretto, immediato, fruibile. Anche dove la rete è sotto controllo, ci sono sistemi per bypassarla quel tanto che basta per un innesco. Basta un dove, un’ora, una data e una rete atipica – talvolta inconsueta anche per le autorità di regimi ben poco tolleranti – come un servizio di file sharing, su cui caricare i pattern e i format per iniziare. Si apre un’altra questione non di poco conto, viste le dimensioni del fenomeno (quasi 2 milioni e mezzo di persone scese in piazza nella sola Santiago del Cile durante il primo giorno di proteste): o bubble filter e echo chambers sono stati bucati o le piazze - tesi cara non solo ai complottisti, ma anche a Teheran e ai cinesi - sono solo camere dell’eco più grandi che non rappresentano la realtà ma una parte del tutto che si vorrebbe far passare per il tutto. Come in un frattale – ma così funziona la rete – è impossibile uscirne.

Gli smartphone consentono alle proteste di funzionare anche con una leadership minima e leggera. Cerchiamo un volto, un portavoce. Ma non ci sono. Ci sono bandiere e maschere, masks & flags. Anche l’intermediazione carismatica, dopo quella dei corpi intermedi, viene fatta fuori dalle forme senza forma di questo nuovo agire comunicativo. La realtà è che questi movimenti sono strutturalmente senza leader. Non ne hanno perché non ne cercano. Né apocalittici, né integrati «sono improvvisati collettivamente», piuttosto che condotti. Sono jazz, non classici, sintetizza Ferguson. Un altro storico, Peter McPhee, ha sintetizzato un modello, tratto dalle principali caratteristiche delle cinque grandi rivoluzioni del mondo moderno, la Rivoluzione inglese del 1649, quella americana del 1776, la Rivoluzione francese del 1789, quella Russa del 1917 e, infine, quella cinese nel 1949. Mc Phee individua le caratteristiche di una rivoluzione propriamente detta: nell’ascesa di un’ideologia in contrasto con il regime al potere; in inneschi a breve termini di proteste diffuse; in momenti di confronto violento con un regime che non è più in grado di contenerle; nella successiva rottura dell’alleanza rivoluzionaria, con la costituzione di fazioni e una nuova lotta per il potere; e, infine, nel ritorno all’ordine che si realizza quando un leader emerso dal processo rivoluzionario consolida la sua posizione. Nessuna di queste caratteristiche, salvo l’innesco, sembra presente nei movimenti di protesta globali.

A oggi, una cosa possiamo però dire con certezza: il territorio delle manifestazioni in questa super piazza globale non ha ancora una mappa e inizia a insinuarsi il sospetto che, forse, a dispetto del florilegio di geometriche teorie che le inseguono vedendosi sfuggire la realtà da tutti i lati, non ne avrà mai una. Ci troviamo in uno di quei momenti in cui, per riprendere le parole di Emile Durkheim, sulla base di passioni intense, 'gli individui si cercano, si uniscono e il risultato è un’effervescenza generale'. Solo che questa effervescenza, al tempo della rete, non è mai sembrata andare oltre le sfide allo status quo. Ecco il punto: andare oltre i legami orizzontali estemporanei, cercare nuove intermediazioni nonostante la forza centrifuga dei movimenti che sorgono in rete e inevitabilmente sconfinano nelle nostre vite.