Dopo Natale. Mettiamo pure via il Presepe ma mettiamoci nei panni altrui
Il Battesimo di Gesù chiude il tempo di Natale e quindi domenica scorsa, come credo molti italiani, anch’io ho riposto il Presepe. I Re Magi, che avevano trascorso quasi tutte le feste sul mobile più lontano dal Presepe, sono quelli che per primi tornano nella scatola grande, quella capace di contenere perfino i dromedari. E alla fine anche la Madonna e san Giuseppe, che attendevano Gesù Bambino dai primi di dicembre, vengono imballati, con la speranza che passino velocemente questi mesi senza Natale. Togliere il Presepe è sempre un momento un po’ mesto.
Mi viene da pensare che forse non dovremmo impacchettare quello che le statuine ci hanno fatto ricordare nelle settimane in cui sono state protagoniste del nostro spirito familiare. E poi va ricordato quel che ci ha scritto il Papa, visto che una lettera apostolica come la Admirabile signum, non può essere messa nel cassetto come se fosse propria solo del tempo natalizio, senza conseguenze pericolose: penso al valore della famiglia, dell’accoglienza della diversità, fino ad arrivare al Mistero dell’Incarnazione nel suo insieme. Vorrei soffermarmi però soprattutto sulla ricchezza del valore della 'composizione di luogo'. Per la preghiera, certo, ma non solo. Vorrei parlarne in generale: come metodo esistenziale, come modo di rapportarsi agli altri.
La 'composizione di luogo' è, in sostanza, l’abitudine a immaginarsi la scena dell’azione di cui si legge o della quale si parla. Francesco, narra il Papa, voleva 'rappresentare' il Bambino nato a Betlemme ( Admirabile signum, n. 2). Antesignano della 'composizione di luogo' ignaziana, il Poverello di Assisi, che era appena tornato dalla Terra Santa, cercava di riprodurre esternamente quanto aveva visto. Non gli bastava assaporare con la memoria un ricordo ma, per meditare appieno, voleva rivivere la scena. Il Presepe nasce in questo modo: sgorga dall’amore che vuole rinnovare un’esperienza e farci ri-entrare in essa. Nei giorni scorsi, quando passavamo davanti al Presepe di casa nostra, ricordavamo i fatti del Vangelo, certo, ma soprattutto crescevamo anche alla scuola del 'mettersi nei panni degli altri'.
Un conto è leggere «non c’era posto per loro nell’albergo» (Lc 2,7), altra cosa è vedere un bambino seminudo steso sulla paglia di una mangiatoia e scaldato dal fiato di due animali. «Prima di giudicare una persona cammina tre lune nelle sue scarpe»: è un’espressione saggia, molto antica, il cui senso è che per capire sul serio una persona bisogna cercare di vivere la sua stessa vita. San Francesco teneva molto a essere empatico con il suo Dio e per questo 'inventa' il Presepe: noi che nel tempo di Natale abbiamo seguito i suoi passi, proveremo a imitarlo anche nel resto dell’anno? È il sogno che alberga nel cuore di ciascuno di noi quando non ci sentiamo capiti. 'Le persone – diciamo – mi criticano perché non si sono messe nei miei panni, non si sono sforzate di conoscere la mia storia e così non capiscono cosa mi ha spinto a prendere una determinata strada'. Ebbene, il Presepe è l’enorme racconto di un Santo che si sforza di capire e di vivere qualcosa che era distante da lui milleduecento anni e migliaia di chilometri, ma che lo interessava terribilmente perché era il suo Amore.
Quest’anno che inizia, sforziamoci un po’ di più di metterci nei panni degli altri, e, anche se abbiamo dovuto riporre le statuine, porteremo il Presepe un po’ di più con noi. Mettiamoci soprattutto nei panni di chi ci critica. L’empatia è un potente antidoto alla rabbia e all’ira che, non dimentichiamolo, sono sempre e solo uno spreco di energia. È molto difficile arrabbiarsi con qualcuno quando comprendiamo come si sente. Se qualcuno ci critica cerchiamo noi di metterci al suo posto. Avremmo voglia di spiegargli che dovrebbe mettersi nei nostri panni: facciamo così, mettiamoci noi nei suoi. Scopriremo che è una persona miope perché non ha vissuto le nostre esperienze di vita. E allora capiremo ancor meglio perché Dio ha voluto vivere le nostre, incarnandosi.