Reportage. Messico, narcotraffico e giovani vittime
Porky Pig. Il pasticcio di carne, mais dolce e qualche ingrediente segreto è la specialità del ristorante La Leche di Puerto Vallarta. Il jet set nazionale si dà appuntamento nel locale vip per assaggiare il celebre piatto: artisti, manager, perfino l’ex presidente Felipe Calderón. Ovvio, dunque, che anche loro, i rampolli dei più potenti clan di 'signori del narcotraffico' lo frequentino.
Fin qui niente di strano. I narco-juniors – figli e nipoti di boss – sono parte integrante dell’alta società messicana. Nemmeno troppo strano è quanto accaduto la notte tra il 14 e il 15 agosto: un commando armato ha fatto irruzione a La Leche, si è diretto verso il tavolo di una comitiva di ragazzi rumorosi, intenti a celebrare un addio al nubilato. Ne ha scelti sei – altre fonti dicono sette – e li ha portati via. Scene di violenza quotidiana nel Messico della narcoguerra. Con almeno 27mila desaparecidos, nessuno si stupisce troppo per un sequestro, o 'levantón' come dicono da queste parti. E, invece, stavolta il fatto era del tutto inedito.
Per l’identità di una delle vittime: Alfredo Guzmán, figlio – nonché collaboratore – di Joaquín El Chapo Guzmán, capo del cartello di Sinaloa, la più potente multinazionale del crimine, con ramificazioni nei cinque Continenti, Europa e Italia incluse. I mmediatamente il rapimento è diventato un affare di Stato, anzi globale data la rete di consociate e succursali di Sinaloa sparse in 69 Paesi. Una questione aperta a quasi due mesi di distanza e dai risvolti inquietanti, nonostante il rilascio di Alfredo, a sei giorni dalla cattura.
Chi e soprattutto perché l’ha preso? Per quale ragione o in cambio di cosa l’ha lasciato andare vivo e incolume? È l’inizio della fine dell’impero di El Chapo? Siamo di fronte a una nuova tappa della narcoguerra? Interrogativi cruciali, non solo per gli appassionati di 'saghe mafiose', come quelle raccontate, in modo un po’ naif, in popolarissime serie tv. I clan hanno conquistato brandelli, a volte consistenti, di istituzioni.
E, forti di tale appoggio, controllano territori e pezzi importanti di economia. Un mutamento nell’equilibrio criminale non ha solo enormi ripercussioni nell’organizzazione del narcotraffico internazionale. Incide direttamente nella vita delle persone. Il conflitto invisibile in corso in Messico da dieci anni ha ucciso oltre 250mila cittadini, in gran parte civili. Negli ultimi mesi, c’è stata una recrudescenza degli scontri anche in zone – come Ciudad Juárez, il Colima e il Michoacan – in cui la violenza si era attenuata. Il risultato è un bagno di sangue. Luglio ha raggiunto il record di 1.051 omicidi: oltre 30 messicani assassinati al giorno. Settembre non è stato da meno: 1.041 delitti. Nell’ultimo mese inoltre sono stati massacrati tre sacerdoti in un’ennesima offensiva per zittire le voci 'scomode' per il crimine.
L'affaire Alfredo' è molto più, dunque, di un 'regolamento di conti' fra narcos. È un pasticcio dai molti ingredienti segreti. 'Porky Pig', l’ha ribattezzato qualche messicano. Senza pretendere di svelarne la ricetta – per riprendere la metafora culinaria –, possiamo quantomeno provare a individuarne i principali componenti. A cominciare dai più evidenti. Primo. El Chapo è di nuovo in prigione, nel Cereso di Ciudad Juárez, dopo il terzo arresto a Los Mochis, l’8 gennaio scorso. «A differenza delle altre volte, si tratta di un 'carcere duro' – spiega ad Avvenire Anabel Hernández, giornalista nota per i suoi reportage sul narcotraffico e autrice di 'La terra dei narcos' (Mondadori) –. La moglie, Ema Coronel, mi ha ripetuto più volte in un’intervista di essere molto preoccupata. E la sua versione è stata confermata da fonti indipendenti».
Il più potente dei narcos – in grado di trasformare i penitenziari in hotel a cinque stelle – dunque, attraversa un momento di crisi. E qui veniamo al secondo elemento. «Ancor prima del rapimento di Alfredo, l’11 giugno scorso c’è un precedente inquietante. La casa della madre di El Chapo, a La Tuna, è stata saccheggiata. È stata un’aggressione dal forte valore simbolico: il boss è stato attaccato nella sua stessa terra, nel paesino dov’è nato e oltretutto da un nipote, Alfredo Beltrán Guzmán. Il clan, da sempre unito, inizia a spaccarsi». Ai nemici interni si sommano quelli esterni. In primis il cartello di Jalisco Nueva Generación, una sorta di 'new entry' nell’Olimpo del narcotraffico. Un tempo affiliato a Sinaloa, si è messo in proprio nel 2009-2010. Pian piano ha cominciato a espandersi nella zona di Jalisco e Colima, reclutando i superstiti delle organizzazioni fagocitate dai clan più grandi.
Ora, però, vuole di più. Autorità ed esperti concordano nell’attribuire al cartello di Jalisco e al suo capo, Nemesio Oseguera Cervantes alias El Mencho, la responsabilità del sequestro di Alfredo e il sostegno logistico nell’aggressione alla madre di El Chapo. Dopo quest’ultima, Sinaloa ha reagito con ferocia: l’intero stato è stato messo a ferro e fuoco, con tanto di villaggi bruciati, persone squartate e 4.500 sfollati in poche settimane.
Perché una nuova provocazione? El Mencho ha davvero la forza per sfidare il potere di El Chapo? E, se sì, perché poi ha liberato Alfredo? «C’è un dettaglio importante. Il figlio di El Mencho è rinchiuso nel penitenziario del Altiplano – afferma Ismael Borórquez, direttore della rivista Rio Doce, specializzata in inchieste sul crimine –. Da dove El Chapo è scappato dopo il secondo arresto. Se fosse accaduto qualcosa ad Alfredo, quest’ultimo si sarebbe vendicato sul rampollo di El Mencho». Ovvio, nei negoziati sono entrate in ballo molte questioni. «Non sappiamo ancora niente di certo. Ma potrebbero essere accordati sul controllo di rotte per il trasporto della droga o territori», prosegue Borórquez. E «segreti da custodire», aggiunge Hernández. «Ricordate l’intervista con Sean Penn? Beh le mie fonti hanno confermato che il boss di Sinaloa voleva davvero far fare un film su se stesso. E sarebbe questa l’origine del suo presunto declino. Tanti 'pezzi grossi' – politici, giudici, imprenditori – non vogliono vedere i loro nomi comparire sullo schermo...».
Qualcuno sta cercando di tappare la bocca a El Chapo prima che dica una parola di troppo, specie ora che l’estradizione verso gli Usa si avvicina – l’avvocato ha anticipato che la prima decisione sarà a fine mese – potrebbe essere tentato di spifferare qualche particolare 'ghiotto' in cambio di uno sconto di pena? O è forse Washington a voler che il super capo dica o non dica qualcosa? «Secondo le nostre fonti, la Drug Enforcement Administration (Dea) ha fatto pressioni sul cartello di Jalisco perché non uccidesse Alfredo e il fratello Iván che, per alcuni, era fra i rapiti – sottolinea il direttore di Rio Doce –. Certo, né agli Stati Uniti né al governo messicano conviene la guerra che l’assassinio di uno o due figli di El Chapo avrebbe provocato. Non so se, però, si riuscirà ad evitarla. Qualche giorno fa, è stato assassinato un nipote di Ismael El Mayo Zambada, numero due di Sinaloa».
Mentre i boss affilano le armi, la violenza continua ad aumentare. Il problema è strutturale. «E si riassume in un concetto: l’assenza dello Stato – spiega Edgardo Buscaglia, tra i più noti esperti di sicurezza internazionale, autore di 'Vacios de poder en México' e 'Lavado de dinero y corrupción política' –. La corruzione è cronica. Per le organizzazioni criminali è estremamente economico 'comprare' un funzionario. L’80 per cento degli appalti pubblici sono finanziati con denaro dei narcos. Il che è preoccupante. Perché così lo Stato si trasforma in 'mafiocrazia'. All’interesse generale viene sostituito quello dei diversi gruppi criminali».
Finora, secondo gli esperti, la politica avrebbe privilegiato quelli di Sinaloa. Ora sembra che il vento stia cambiando. «Anche se è tutto da vedere. Sinaloa è una multinazionale criminale, guidata da una sorta di consiglio di amministrazione con esponenti dei vari Continenti. El Chapo è importante, ma non è l’unico». Un bel pasticcio, insomma. Porky Pig.