Istruzione. Merito? Ragioniamone al plurale e non diventi il perno della scuola
«L’idea di meritocrazia ha molti meriti, ma la chiarezza non è tra questi». Così scriveva il premio Nobel per l’economia e filosofo Amartya Sen, citato per altre ragioni dal(la) presidente del consiglio Giorgia Meloni nella sua risposta al dibattito parlamentare di martedì 25 ottobre, in un articolo del 2000 intitolato Merit and Justice. Senza pregiudiziali proviamo a capire se la frase di Sen può essere riferita anche alla scelta fatta dal governo Meloni di trasformare il “Ministero dell’Istruzione” in “Ministero dell’Istruzione e del Merito”. Partiamo dai seguenti scenari.
Scenario 1: lunedì c’è la verifica di Italiano. Caty passa il fine settimana a studiare e il lunedì seguente ottiene un ottimo voto (9). Marco passa il fine settimana a studiare, ma si concede anche pause per uscire con gli amici. La verifica non va male, ma il voto (7) non è alto come quello di Caty.
Scenario 2: lunedì c’è la verifica di Italiano. Caty passa il fine settimana a studiare e il lunedì seguente ottiene un ottimo voto (9). Marco passa il fine settimana a studiare, ma, sollecitato dall’amica Camilla, le offre il suo aiuto nello studio. Marco è anche membro di un’associazione giovanile che fa volontariato domenicale in una mensa dei poveri. La verifica di Marco non va male, ma il voto (7) non è alto come quello di Caty.
Forse sbaglio, ma nel pensiero di chi ha rinominato il Ministero dell’Istruzione aggiungendo “merito” è lo scenario 1 quello da considerare come paradigma. Caty si è impegnata più di Marco, il successo nella verifica se lo è guadagnata con i suoi sforzi e quindi “merita” di essere premiata per questo. Eppure ci sembra ingiusto che gli sforzi di Marco nello scenario 2 (aiutare i suoi amici e fare volontariato) non siano riconosciuti come meritevoli e quindi premiati. In fondo la meritocrazia è un ideale di giustizia sociale, ci dice come le cose dovrebbero andare, e nello scenario 2 sembra piuttosto “ingiusto” premiare Caty e non Marco.
Amartya Sen ha ragione. La meritocrazia, e l’idea di merito con essa, sono concetti piuttosto vaghi. È interessante quanto lo stesso Sen aggiunge nel prosieguo della frase: «La mancanza di chiarezza può essere riferita al fatto [...] che il concetto di merito è profondamente condizionato dalle nostre opinioni su cosa sia una buona società». Nel caso della scuola, quindi, occorrerebbe partire da una discussione su cosa costituisce una «buona scuola», qual è il telos (scopo ultimo) dell’istruzione. Da lì poi capiremo quali sono gli “sforzi” e le “caratteristiche” che vogliamo premiare, in altre parole ciò che costituisce la “base” del merito. Farà piacere a chi rivendica l’interesse nazionale, il made in Italy, e la sovranità come princìpi cardine del proprio governo sapere che l’idea di Sen non è originale, proprio in Italia più di 200 anni fa era stata teorizzata dal filosofo Melchiorre Gioia nel suo libro Dei Meriti e delle Ricompense. Gioia scriveva: «Le idee che nella mente degli uomini corrispondono alla parola merito, sono, come tutti sanno, infinitamente diverse: esse cambiano d’oggetto, di grado, di scopo, di misura, non solo tra popoli e popoli, ma anco tra classi e classi nella stessa città».
Partendo da Sen e da Gioia propongo tre spunti di riflessione per analizzare la storia di Caty e Marco. In primo luogo, quella storia ci dice che parlare di merito al singolare e non al plurale è deleterio. Se è vero che nello scenario 2 il merito di Marco non cancella quello di Caty, è altrettanto plausibile che entrambi meritino di essere premiati. Uno degli scopi della scuola dovrebbe essere quello di valorizzare le diversità e i meriti individuali (e collettivi). Se non si capisce questo, si tratta la scuola come un’altra delle tante opere di ingegneria sociale dove le persone vengono “prodotte” in serie per non si sa quale scopo. Sta qui la differenza tra un insegnante e un educatore. L’educatore è capace di vedere ed eventualmente premiare i diversi meriti di Marco e Caty, l’insegnante guarda solo al risultato finale. Anticipo l’obiezione di chi dirà che questa visione implica l’assenza di qualsiasi tipo di metro comune, giudizio, compito, verifica: non avete notato che nel mio esempio sia Caty che Marco superano con buoni voti la verifica di Italiano? Qui non si contesta il 7 o il 9, si contesta che il 9 sia sempre più meritorio e come tale vada premiato, cioè gli vada riconosciuto un valore morale. A chi non vuole proprio rinunciare al merito, quindi, propongo almeno di parlarne al plurale come già ci suggeriva Melchiorre Gioia.
Il secondo argomento parte dall’assunto che un altro scopo della scuola è quello di trasformare le persone in cittadini. Il merito è importante in questo processo, ma non nel senso che sembrerebbe emergere dal nuovo nome del Ministero. Ciò che rende davvero un cittadino tale non sono i buoni voti a scuola o il voto dato alle elezioni. È l’uso pubblico e libero della nostra ragione per discutere degli affari della nostra società a renderci cittadini. Ciò che occorrerebbe insegnare a Caty e Marco è che una scuola (e società) fondata sul merito non può prescindere da un pubblico dibattito su ciò che costituisce la base del merito stesso. Se ne deve parlare a scuola come in Parlamento. Quando i padri costituenti hanno inserito l’articolo 34 della Costituzione Italiana, dove si parla di «capaci e meritevoli», non lo hanno pensato come lettera morta, un testo a cui fare riferimento in maniera dogmatica. La Costituzione è un testo che vive nella lettura, discussione, interpretazione e internalizzazione di chi la legge e la applica. È questo che fa della nostra Costituzione uno dei testi più belli del mondo. La discussione, si dice, è il sale della democrazia: ebbene perché far eccezione su un tema così importante?
Da ultimo è bene ricordare ai sostenitori della meritocrazia che merito e successo non sono sinonimi. Se lo si dimentica, allora la meritocrazia diventa inevitabilmente una legittimazione etica della disuguaglianza. Nei Miserabili Victor Hugo lo diceva meglio di quanto ho appena fatto io: «Sia detto alla sfuggita, il successo è una cosa piuttosto lurida; la sua falsa somiglianza col merito inganna gli uomini». Al successo individuale concorrono tanti fattori non “meritori”: la fortuna, l’aiuto di altre persone, le condizioni di partenza, i talenti (ciò le caratteristiche con cui siamo nati). La consapevolezza che i successi sono frutto di fattori plurali non esclude il merito, ma lo contestualizza e arricchisce. Ci salva anche da pericolose trappole sociali, una su tutte quella di equiparare fallimento e demerito (quanto danno ha fatto, anche in termini di vite umane, questa convinzione sbagliata?). Dovremmo chiederci, allora, se siamo davvero in grado di vedere tutti i fattori che contribuiscono a un risultato, cioè se siamo in grado di capire la differenza tra gli scenari 1 e 2 nella storia di Caty e Marco. Allo stesso modo, dovremmo capire che la meritocrazia – meglio: la valorizzazione dei meriti – è una tra le tante logiche che dovrebbero governare la scuola e la società. Probabilmente non è la prima, né la più importante, sicuramente non è ciò su dovrebbero reggersi la scuola e la società di domani.
Filosofo dell’Economia, Università di Tilburg (Olanda)
Le citazioni di Amartya Sen sono tradotte dall’autore dell’articolo