La riforma. Meno progressività e più tolleranza: ecco perché il fisco rischia i fiaschi
Premessa: la legge delega di riforma del fisco, approvata ieri dal governo, è come una tela su cui sia stato abbozzato solo uno schizzo. Impossibile dare un giudizio compiuto sull’opera. Dipende da come verrà dipinto, dai giochi di luce e ombre, dalle sfumature soprattutto. Così sarà in particolare per la nuova Irpef, di cui non si conoscono ancora né le aliquote, né i relativi scaglioni di reddito e soprattutto quali e quante deduzioni e detrazioni rimarranno.
Tuttavia, nel bozzetto preliminare ci sono degli elementi che già delineano come governo e maggioranza si propongono di cambiare la struttura dell’imposizione fiscale. E diversi di questi elementi già a prima vista risultano piuttosto inquietanti, quantomeno preoccupano. A cominciare dalla prospettiva disegnata, che è quella della progressiva riduzione degli scaglioni fino ad arrivare alla cosiddetta flat tax. Quel tassapiattismo, come l’abbiamo chiamato qualche anno fa, che è in radice la negazione del criterio di progressività dell’imposizione fiscale scolpito nell’articolo 53 della Costituzione. Non la semplice indicazione di una tecnicalità da preferire rispetto a un’altra, ma il baluardo dell’equità del sistema, il fondamento solidale del patto di cittadinanza del nostro Paese. La tesi delle forze di maggioranza è che la progressività può essere garantita anche con meno scaglioni e perfino con una flat tax, attraverso il gioco delle detrazioni e deduzioni, determinando così aliquote effettive differenti per i diversi contribuenti. Vero. Ma – al di là delle modalità che verranno definite – questo gioco di deduzioni rappresenta pur sempre una “correzione” rispetto a un sistema che non sarebbe più costitutivamente informato alla progressività e che, oggettivamente, premierebbe in maniera proporzionalmente maggiore i redditi più alti. Non solo, deduzioni e detrazioni sono comunque molto variabili, corrispondono spesso a una spesa, a un bisogno (pensiamo alle cure mediche) che viene detassato fino a una certa “capienza” e capacità di spesa del contribuente, minore per i redditi più bassi. Una sola aliquota impositiva, invece, garantisce ai redditi più alti una minore tassazione a prescindere da altre condizioni, anche qualora venissero esclusi da alcune detrazioni/deduzioni.
In questo quadro, occorre dire che la maggioranza si è impegnata a sostenere la condizione familiare. Non sappiamo precisamente come, ma possiamo ipotizzare che le detrazioni/deduzioni possano essere disegnate con tetti crescenti a seconda del numero di figli a carico. Sarebbe una scelta certamente meritoria, che finalmente darebbe una prima risposta all’esigenza di equità orizzontale (a parità di reddito complessivo la famiglia con più componenti deve essere tassata meno) ma sempre di carattere “riparatorio”, non risolutivo del problema e con alcuni rischi di iniquità (si veda quanto è accaduto con opzione donna).
Ancora, giusto cercare di alleggerire il peso dell’imposizione che oggi grava in maniera particolare sui ceti medi (i redditi molto bassi di fatto già pagano zero Irpef). Ma il vero nodo riguarda in particolare il lavoro dipendente, che rappresenta oggi solo il 40% dei redditi complessivi e che da solo invece assicura il 78% del gettito Irpef. Con il 5% dei contribuenti (quelli che dichiarano oltre 55.000 euro lordi) che da soli generano il 38% del gettito complessivo di questa imposta. Altri redditi, come quelli di capitale, da impresa, da affitti ecc. sono soggetti ad altri tipi di tassazione, non progressiva e con aliquote assai più basse rispetto a quelle attualmente in vigore per il lavoro dipendente. Per diminuire il peso dell’imposizione che grava su questo ceto medio dipendente, allora, la via più equa (e per noi più efficace) sarebbe stata quella di allargare la base imponibile riportando a tassazione Irpef anche i guadagni da altre fonti e così finanziare la riduzione – per tutti – delle aliquote. Il governo sembra invece incamminarsi su tutt’altra strada, prevedendo, ad esempio, l’estensione della cedolare secca agli affitti commerciali o la flat tax incrementale. E – attraverso misure come il concordato preventivo per le piccole aziende, le sanzioni e i controlli ridotti – guardare all’impresa con uno spirito di eccessivo laissez-faire. Anziché continuare a contrastare l’evasione (con nuovi strumenti si sono recuperati più di 20 miliardi su una stima di 120 sottratti al fisco) si adotta un atteggiamento “comprensivo”, una sorta di benevolenza per autonomi e imprese. E “pazienza” se qualcosa eludono o non pagano del tutto, purché facciano Pil e magari occupazione.
Ma così è un «Fisco per fiaschi», come abbiamo titolato ieri: un nuovo sistema che rischia di far fiasco nel garantire l’equità interna, di fallire il contrasto all’evasione e che, con entrate più incerte e basi imponibili ridotte, mette potenzialmente a rischio i servizi pubblici e lo stato sociale. E sarebbe il fiasco peggiore. Il disegno è solo abbozzato, ci sono due anni per dipingere un quadro migliore.