Opinioni

Memoria da rinnovare per opporsi all'onda limacciosa del razzismo

Marco Tarquinio domenica 28 gennaio 2018

Caro direttore,

vi leggo (quasi) giornalmente dalla città tedesca di Heidelberg, ove ho coperto un insegnamento di cultura italiana per 41 anni. Usurpo un poco del suo tempo e della sua attenzione per dire, innanzi tutto, a lei e ai suoi collaboratori la mia gratitudine per quanto (quasi) giornalmente ricavo dalla lettura di “Avvenire”. Ma, in secondo luogo, anche per segnalare un certo disagio, starei per dire morale, nell’apprendere – da fonti autorevoli – che «il fascismo ha fatto molte cose» e che è ora finalmente di «onorare il ventennio del Fascio». Una sola domanda: visto che c’è chi sostiene che dobbiamo onorare le leggi razziali antisemite, portatrici di morte (penso ai docenti ebrei del mio Liceo “Giovanni Berchet” in Milano), perché non aiutare tutti a capire che cosa furono e che cosa produssero chiamandole, finalmente, con il nome che si meritano, scilicet “leggi razziste”? Grazie per l’attenzione

Ettore Brissa, Heidelberg


Lei, caro professor Brissa, non è il primo e non sarà l’ultimo a porsi e a porre a tutti il problema se l’aggettivo giusto per qualificare quelle leggi del 1938 sia “razziali” o “razziste”. La questione è seria, ma non mi pare così decisiva. Personalmente mi fa inorridire che nel mio Paese si sia potuto anche solo parlare di “leggi razziali”. E ritengo che non possa esserci il minimo dubbio sul fatto che le norme varate dalla dittatura fascista contro le persone di ascendenza, cultura e religione ebraica avessero purtroppo motivazioni e contenuto vergognosamente razzista e intenzioni insopportabilmente discriminatorie e distruttive. Anche per questo credo – come lei e, grazie a Dio e alla retta coscienza di tantissimi, non siamo affatto soli neppure in questo tempo diviso tra retorica e smemoratezza – che non merita oggi più di ieri e meno di domani alcuna compiacenza o indulgenza un regime dittatoriale che arrivò a codificare il razzismo. Non mi tolgo dalla mente una frase che Pio XI pronunciò in un colloquio con il gesuita padre Piero Tacchi Venturi, a lungo trait d’union tra la Santa Sede e il regime fascista, e che la storica Emma Fattorini riporta in un suo bel libro di undici anni fa “Pio XI, Hitler e Mussolini. La solitudine di un papa” (Einaudi, 2007) basato su un’ampia documentazione dell’Archivio Segreto Vaticano. Pio XI, al secolo Achille Ratti, «Ma io mi vergogno... mi vergogno di essere italiano. E lei, padre, lo dica pure a Mussolini! Io non come Papa, ma come italiano mi vergogno! Il popolo italiano è diventato un branco di pecore stupide. Io parlerò, non avrò paura. Mi preme il Concordato, ma più mi preme la coscienza». Esemplare. Da cittadini italiani, per umanità e civiltà, non si può seguire l’onda limacciosa del razzismo o addirittura abbandonarsi a essa. E da cristiani e da cattolici bisogna sapersi opporre a essa con limpida e pacifica fermezza.