Ex luoghi di culto. Meglio abbattere o riconvertire? Il dilemma delle chiese vendute
L’hotel nella zona Fiera del Portello a Milano, la cui struttura ha incorporato l’edificio di una chiesa del 1934
Era un’imponente chiesa, ora è un hotel. Nella zona Fiera del Portello, a Milano, il suo volume resta come monumentale ingresso alla struttura alberghiera: « Avrebbe potuto essere abbattuta – riferisce Michele Reginaldi, di Quattroassociati, lo studio che ha realizzato il progetto – la Soprintendenza era favorevole. Ma quell’architettura, eretta nel 1934 in stile tardo manierista, era ben rappresentativa dell’espansione urbana dell’epoca ed era il cardine del luogo. Certo, da decenni era chiusa al culto, ma la sua presenza esprime la continuità storica del quartiere: abbiamo voluto preservarla per questo. La forma architettonica sempre conserva la propria funzione nel tessuto urbano, anche se la sua destinazione originaria viene a cessare». Così la chiesa del Portello è stata restaurata e raccordata al nuovo hotel da due cortine di lesene in evidenza sulle facciate laterali. È un esempio di ristrutturazione urbana, perché ha consentito alla città di conservare la forma dell’edificio, pur se il suo contenuto è radicalmente cambiato. Un caso emblematico di risposta a un problema di fronte al quale si trovano da un lato la Chiesa e dall’altro la società civile. E in mezzo c’è il mercato.
Infatti, se un edificio nato per esser chiesa perde la sua funzione per mancanza di fedeli e le istituzioni ecclesiastiche che lo hanno in carico non dispongono dei mezzi per mantenerlo, può essere alienato, e qui trova la speculazione immobiliare e i più diversi interessi che possono portare a farne di tutto: uno studio professionale, un teatro o un’abitazione, ma anche un bar, un ristorante o un night club. E sorgono i quesiti: che cosa rappresenta quell’edificio per la comunità, innanzitutto dei credenti e più in generale per la società e il tessuto urbano? Col suo legato storico, quell’edificio può essere destinato a qualsiasi altro uso, o no? E chi e come deve vegliare sulle destinazioni che lo attendono? Il caso della chiesa del Portello è esempio di una ristrutturazione in cui una parte in causa, il progettista, ha difeso l’immagine dell’edificio nel panorama urbano e di riflesso nella memoria della comunità. Ma non sempre è così, e il problema è diffuso. Alcune puntate del programma televisivo “Report” tra novembre e dicembre 2022 hanno posto l’attenzione su Napoli, dove su un totale di 203 chiese solo 79 sono ancora adibite al culto. Pur con proporzioni diverse, in situazioni analoghe si trova un po’ tutto il territorio italiano, e il mantenimento di tanti edifici inutilizzati è un onere gravoso per la Chiesa.
Per cui se si scorrono gli annunci di vendite immobiliari, non è raro trovarsi di fronte a offerte di ex monasteri sulle colline toscane o marchigiane, o in ambiti urbani a proposte ammiccanti come questa: « All’interno di una splendida chiesa sconsacrata abbiamo ipotizzato la creazione di un appartamento esclusivo» riferito a una ex chiesa sul Lago di Garda; «Stupenda ex chiesa in Cremona trasformabile in appartamento», ecc. In queste operazioni c’è il rischio di perdere qualcosa di importante non solo per la comunità dei fedeli, ma in generale per il tessuto urbano e sociale. Certo l’anima delle chiese sta nelle “pietre vive” dei fedeli, non nei loro muri. Ma le città europee sono tutte caratterizzate da chiese che segnano i luoghi più densi di significato.
«E il territorio italiano – nota Ferdinando Zanzottera, professore di Storia dell’architettura al Politecnico di Milano – è particolarmente denso di chiese, cappelle, monasteri. Noi non abbiamo conosciuto fenomeni distruttivi protratti nel tempo come la guerra dei Cento anni, per cui abbiamo presenze stratificate nei secoli, con una densità sconosciuta altrove. Ogni borgo ha una chiesa che spesso permane da secoli e rappresenta l’identità locale». «È un problema drammatico – commenta Andrea Villani, già docente di Economia urbana all’Università Cattolica di Milano – e riguarda anche l’abbandono di una miriade di strutture forse non importanti sul piano artistico, ma che hanno rappresentato un’espressione di fede e religiosità. Mi sembrerebbe ragionevole, quanto meno in termini di sentimento, che piuttosto di destinarli a un uso totalmente difforme rispetto a quello per cui furono costruiti sarebbe meglio demolirli, come ho visto fare a Nizza, dove una chiesa è stata abbattuta per far posto a un palazzo per uffici».
Sul piano urbanistico, tuttavia, se l’abbattimento può sembrare plausibile per edifici di scarso valore architettonico e privi di peso nel contesto urbano, forse non lo è per quelli di rilevanza monumentale. Come sostiene Andrea Longhi, professore di Storia dell’architettura al Politecnico di Torino: «La dismissione e la trasformazione pongono problemi che esulano dalle dinamiche di vita ecclesiale. Infatti, cessando la santificazione del luogo dovuta alla vitalità dell’assemblea celebrante, subentra di fatto una sua sacralizzazione per ragioni affettive, memoriali, estetiche o ideologiche. Sacre diventano le memorie e l’arte locali, e non a caso a volte lo sdegno per l’abbandono emerge più in chi non ha dimestichezza con la vita cristiana, con obiezioni legate a temi quali la tutela del patrimonio artistico, la memoria collettiva, l’identità locale, il decoro urbano».
L’argomento è stato trattato dalla Chiesa in particolare in due convegni, uno del 2018 e uno del 2022 (quest’ultimo riferito al patrimonio delle Comunità di vita consacrata). E sono state elaborate linee guida intese a garantire che le dismissioni non diano adito a trasformazioni che stravolgono il portato dell’edificio. Ma basta l’impegno della Chiesa? Non dovrebbero interessarsene anche le Amministrazioni pubbliche? Purtroppo oggi il tema non sembra interessare queste ultime. Spiega Giancarlo Tancredi, Assessore alla Rigenerazione urbana di Milano: «Se un edificio sacro perde la sua funzione di culto, è decisione che riguarda la proprietà ecclesiastica, non l’Amministrazione comunale. Quindi, se non c’è un vincolo culturale architettonico, può essere destinato ad altri usi. Dal punto di vista urbanistico non costituisce un problema che venga meno una chiesa in un quartiere». Solo che a Milano c’è almeno una ex chiesa che è divenuta night club. Non è un eccesso? «Non vi sono state lamentele dei cittadini che potrebbero giustificare un interessamento dell’Amministrazione pubblica, che non può ingerirsi di vicende che non le competono».
«Sul piano formale certamente è così – chiosa Gianni Verga, urbanista con una lunga esperienza nell’amministrazione pubblica – ma usualmente nei piani di governo del territorio si definisce quali aree e quali edifici siano destinati al culto. Quindi mi sembra che anche la pubblica amministrazione possa occuparsi della corretta conservazione di tali lotti o edifici, non solo le Autorità preposte a quel culto. Del resto in prossimità di un luogo di culto le pubbliche amministrazioni cercano sempre di evitare insediamenti che li disturbano. Ma è chiaro che qualsiasi edificio può essere trasformato, e questo è sempre avvenuto nella storia. Anche solo a Milano vi sono diversi casi degni di nota: l’Università Cattolica è ospitata nei chiostri di una precedente istituzione religiosa, così come il Museo della Scienza e della Tecnica. Sono trasformazioni legittime in quanto capaci di rendere all’uso comunitario strutture nate per scopi comunitari. Oggi mi sembra importante che se la Chiesa deve alienare un bene immobiliare, si rivolga a persone competenti e capaci di discernimento. Per la memoria collettiva il problema è veramente delicato».
Per cui è prudente che si ragioni in termini di ristrutturazione urbana, poiché l’edificio chiesa è quello che più eminentemente rappresenta il radicamento storico delle città. E bisogna anche tener conto che se un giorno tornerà a crescere la frequentazione delle chiese, magari gli edifici oggi abbandonati potrebbero tornare alla loro destinazione originaria. Nei restauri e nelle ristrutturazioni si tende alla continuità e alla reversibilità: sono concetti che tanto più dovrebbero valere per gli edifici più rappresentativi della storia urbana.