Opinioni

Idee. La guerra in Medio Oriente e la trappola della violenza: ma c'è una via d'uscita

Marco Impagliazzo martedì 8 ottobre 2024

Nel 2009 Israel Meir Lau, rabbino capo di Tel Aviv e poi di Israele, partecipando a una commemorazione interreligiosa ad Auschwitz, organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio nello “Spirito di Assisi”, prese la parola in quello che definiva «il più grande cimitero dell’umanità». Disse: «Nel campo di Buchenwald, dove venni liberato quando avevo otto anni, sul muro della finestra della stanza delle torture vidi una parola “necumene”, in yiddish “compi la vendetta”, “vendicati”. Era l’ultima parola di un uomo torturato in quella stanza, una vittima di Buchenwald. Vendetta. Mi chiedo: quale vendetta possiamo fare noi che crediamo nell’Onnipotente? Ma anche noi in quanto esseri umani? Poche ore fa ho ricevuto una telefonata da mia nipote che diceva “nonno, mezz’ora fa ti ho dato alla luce un altro nipote”. È nato oggi in Israele. Allora ho pensato: ecco la mia vendetta. Questa è la mia risposta. Questa è la mia soluzione: Vivi e lascia vivere (Live and let live)».

Davanti all’atroce cimitero del 7 ottobre, le parole del rabbino Lau – sopravvissuto alla Shoah – sono un’indicazione preziosa: vivi e lascia vivere, questa è la “necumene”, l’unica vera vendetta. “Vendetta!”, si sente gridare ovunque oggi. Uno dei significati del termine è “offrire un prezzo”. Ma quale prezzo possiamo chiedere o ottenere per ciò che è accaduto?

La parola “vendetta” è sulla bocca di molti: israeliani e palestinesi. «Il sangue scorre, come le lacrime; la rabbia aumenta, insieme alla voglia di vendetta, mentre pare che a pochi interessi ciò che più serve e che la gente vuole: dialogo, pace», ha scritto ieri papa Francesco.

Sembra che l’unica via davanti alle tragedie sia quella della violenza, della rappresaglia armata, della ritorsione. Osserviamo i risultati di tale ingranaggio: oltre 1.400 israeliani uccisi, ancora 100 ostaggi, Gaza distrutta, 2 milioni di palestinesi senza casa, oltre 40.000 morti... Anche in Libano sta accadendo lo stesso e si teme la conflagrazione di un conflitto con l’Iran. Un circolo vizioso di vendette e rappresaglie senza fine. La medesima deriva attanaglia russi e ucraini: popoli una volta vicini e ora abissalmente lontani, con un odio reciproco che cresce a dismisura. Così in Africa, nel Kivu martoriato, in Sudan, altrove.

I leader mondiali di un mondo caotico non trovano di meglio che un linguaggio di durezza e violenza, attaccati esclusivamente alle proprie ragioni. “Necumene” sembra la cifra del nostro tempo.

Ma c’è un’uscita da questa trappola infernale. È una via semplice e ardua allo stesso tempo: cercare di comprendere l’altrui sofferenza. È vero: soffrire acceca. «Cosa ci rende ciechi e sordi davanti alla sofferenza degli altri? – si è chiesta su La Stampa la psicologa israeliana Ayelet Gundar-Goshen –. Quelle che vediamo sui nostri schermi televisivi sono le immagini delle nostre sofferenze, riflesse di rimando a noi stessi. Il dolore può essere accecante: non si riesce a vedere nient’altro che la propria sofferenza. Il dolore dei gazawi è invisibile agli occhi degli israeliani, il dolore degli israeliani è invisibile agli occhi dei gazawi».

Quando si è ciechi, per vedere bisogna uscire da sé stessi e per riuscirci occorre essere accompagnati. Tale è la nostra responsabilità collettiva di cittadini democratici e di credenti: invece di cedere alla tifoseria che divide, provare a comprendere entrambi i dolori, ricercando una strada fuori dall’ottenebramento della vista del cuore.

Benedetto XVI scriveva nella Deus caritas est che il programma del cristiano è quello «del buon Samaritano, il programma di Gesù: è un cuore che vede» (n. 31). Un cuore che vede non rimane accecato da sé stesso ma aiuta gli altri a vedere. Davanti alla tragedia del Medio Oriente che minaccia di allargarsi sempre di più, così come al ritorno della guerra in Europa a causa dell’aggressione russa all’Ucraina, il nostro atteggiamento non può limitarsi al lamento, all’invettiva o al pessimismo.

Come europei abbiamo la responsabilità che ci viene dal dono di decenni di pace dopo la Seconda guerra mondiale. Invece di autocommiserarci, dovremmo reagire con dignità e coraggio alle sfide del nostro tempo, delle quali prima fra tutte è la guerra. A quest’ultima va tolta rispettabilità e ineluttabilità che l’accompagnano ormai da troppo tempo. Dobbiamo farci sentire con forza in ogni ambiente: la vera “vendetta” – come ci insegna un sapiente ebreo – è la vita.