Medio Oriente. La sentenza della Corte dell'Aja, perché è una finestra di opportunità
Un incrocio di circostanze, un po’ voluto e un po’ fortunato, potrebbe avvicinare un raffreddamento della guerra in Medio Oriente e dare sollievo, almeno provvisorio, alla stremata popolazione di Gaza. Il primo pronunciamento della Corte internazionale di giustizia arriva mentre la trattativa per una tregua lunga sul campo sembra essere vicina al traguardo, pur con tutte le incognite che un passo simile comporta e induce a essere cauti sull’esito.
I giudici dell’Aja hanno scelto una linea più politica che giudiziaria che si rivela opportuna nel momento attuale. Tutte le parti hanno da essere soddisfatte e da lamentarsi, per ragioni con pesi diversi, ma dentro una cornice che mette per la prima volta alcuni punti fermi di diritto nel conflitto scatenato il 7 ottobre dal pogrom dei fondamentalisti palestinesi. Israele deve incassare l’ammissibilità della denuncia di genocidio presentata dal Sudafrica, ma si vede riconosciuta la possibilità di proseguire l’azione di difesa, limitata nella sua portata in modo da non creare ulteriori, immotivate sofferenze ai civili.
Hamas e Anp trovano parzialmente riconosciute le proprie denunce di crimini (sono 26 mila le vittime finora, soprattutto donne e bambini) e vedono conferire un potenziale mandato di intervento per fare rispettare le prescrizioni della Corte al Consiglio di sicurezza Onu. Potenziale, perché difficilmente si troverà l’unanimità per eventuali sanzioni contro Tel Aviv. D’altra parte, si chiede ai movimento che ha scatenato l’offensiva di liberare subito e senza condizioni gli ostaggi, di fatto spingendo verso l’attuarsi dell’intesa tra le parti con lo scambio tra lo stop all’azione militare e il rilascio dei circa 130 israeliani ancora prigionieri nei tunnel della Striscia.
Certo, Netanyahu e il suo governo devono subire il sospetto, ora reso più forte, che i bombardamenti e le privazioni inflitte a Gaza configurino il peggior reato codificato a livello internazionale, e ciò proprio alla vigilia del Giorno della Memoria, che commemora le vittime dell’indicibile genocidio di sei milioni di ebrei in Europa.
Ma è possibile che, nel caso si giunga al cessate il fuoco e a una prosecuzione diplomatica della crisi (con operazioni mirate di anti-terrorismo e non attacchi su larga scala), il verdetto definitivo della Corte di giustizia sia un non luogo a procedere. Decisione non solo suggerita dal senso di opportunità, che spesso non si allinea con sentenze aderenti alle reali responsabilità, ma anche coerente con i codici vigenti, dato che le pur indubitabili violazioni del diritto umanitario internazionale da parte di Israele non hanno evidentemente il carattere della volontà sistematica d’annientamento di un popolo (al di là delle censurabili dichiarazioni di alcuni ministri dell’ultradestra).
Con l’auspicata tregua, favorita anche dall’ingiunzione formale della Corte Onu, si potrebbe aprire una finestra di opportunità da non sprecare. La prima urgenza è quella speculare di ripristinare aiuti e rifornimenti ai quasi due milioni di sfollati e agli oltre 60mila feriti palestinesi e di riportare a casa i rapiti nel raid contro i kibbutz e il rave party nel deserto. A seguire, ci sarà l’occasione di avviare un processo che conduca un nuovo equilibrio nella regione.
A breve termine, la fine dell’invasione israeliana toglierebbe motivazioni e alibi alle azioni parallele di Hezbollah dal Libano e degli Houti nel Mar Rosso. Inoltre, abbasserebbe la tensione che circonda lo Stato ebraico e fa sì che Paesi tradizionalmente vicini siano diventati critici delle iniziative dell’attuale premier. Già questi sarebbero risultati da salutare come un deciso passo in avanti.
Di lì in poi resta da costruire la convivenza tra due nazioni che hanno visto tragicamente allargarsi in pochi mesi il fossato d’odio e di sfiducia che li separa. Come ha invocato il Papa e ha ricordato ieri il presidente Mattarella, serve il coraggio della pace, e Israele, che pure ha tanto sofferto in passato e di recente, ha il compito, in quanto soggetto oggi più forte (sebbene sempre minacciato), di non negare i diritti a un altro popolo che, nella sua maggioranza, non contribuisce alle violenze e al rancore contro la presenza ebraica nella terra cara alle tre religioni figlie di Abramo e continua a vivere in condizioni di forte precarietà. Un percorso estremamente difficile che, tuttavia, sarebbe folle non provare a percorrere quando si apre un piccolo varco.