Media, suicidio assistito ed eutanasia. E lo Stato che non deve dare la morte
Caro direttore,
martedì 23 novembre mi è capito di ascoltare alla radio, nel corso della trasmissione Zapping (RadioUno Rai), un intervento in ordine alla persona che nelle Marche sta portando avanti una azione, volutamente mediatica, per l’autorizzazione al 'proprio' suicidio assistito. Unica interlocutrice chiamata a esprimere le proprie opinioni è stata una professionista della associazione che affianca la persona interessata. Il conduttore della trasmissione è stato tutto e fortemente schierato dalla parte di questa professionista. È stata mandata in onda una registrazione del soggetto interessato. Nessun contraddittorio. Nessun confronto con una dalle migliaia di altre situazioni esistenti in Italia che avrebbero potuto esprimere la propria forza della vita. Nessuna interlocuzione con le migliaia di operatori sanitari e sociali che ogni giorno aiutano a gestire le ma- lattie, amorevolmente, con professionalità, con abnegazione. Nessuno che abbia potuto raccontare la bellezza di dare e ricevere aiuto e che questa bellezza viene quotidianamente raccontata a migliaia di persone che ogni giorno si trovano ad affrontare la strada di cui si è parlato. Tutto ciò è desolatamente desertico ed è una ulteriore prova dell’imbarbarimento attuale delle coscienze, che viene artatamente divulgato in modo subdolo. Io credo che chi riveste il ruolo competente debba far presente anche a livello 'politico', nell’ambito della Rai, che questo non è un modo corretto di fare comunicazione da servizio pubblico. Infinite grazie per l’attenzione che costantemente riservate, attraverso un incisivo confronto, su questioni etico-socio-sanitarie che meritano riflessioni profondamente meditate.
Francesco Napolitano, RomaÈ vero, caro avvocato Napolitano, c’è in molti colleghi giornalisti una tendenza irresistibile a dar voce e a prendere le parti di chi ritiene un 'diritto civile' il farla finita e un 'dovere' dello Stato garantirne l’esecuzione. Diritto non rivendicato in astratto, si badi. Perché sempre esso viene collegato a casi commoventi e coinvolgenti di sofferenza fisica e morale, ai quali nessuno può restare insensibile. C’è, infatti, anche una dose di pietà umana che non sottovaluto affatto e che, anzi, rispetto in questa propensione di parecchi comunicatori a solidarizzare con l’idea della morte come soluzione. Credo che questo sentimento interpreti al contrario – cioè, di fatto, rovesciandolo – il naturale istinto a soccorrere e sostenere chi è in bilico su un burrone o a fermare chi sta per buttarsi da un ponte.
Ma attenzione: per arrivare a pensare che la spinta e non l’abbraccio a una persona sul ciglio della vita e che vorrebbe (o si presume che vorrebbe) morire siano la risposta giusta, per un numero crescente di italiani risulta decisivo il fatto che quella stessa persona sia portatrice di una malattia o di una disabilità che le causa sofferenze fisiche e/o psicologiche oppure viva una condizione giudicata gravemente 'anormale', per esempio uno stato cosiddetto vegetativo. Occorre, in sostanza, che si tratti di una persona 'imperfetta' o comunque, non più abile secondo i canoni di normalità delle nostre società e che la sua condizione sia, o possa essere considerata, fonte di dolore. E qui è il punto che molti stentano a cogliere, anche tra quanti fanno il mio stesso mestiere e, pur non essendo specialisti (in senso scientifico) di questa materia dell’umano, sono tenuti a esercitare – un po’ come i medici, e al pari di legislatori e magistrati – uno sguardo profondo sulla vita propria e altrui, per capire i processi che si innescano e i precedenti che si creano attraverso le parole che diventano articoli di giornale, comunicazione radiotelevisiva, post digitali o articoli di legge. Il ragionamento che ho richiamato parte da singoli casi concreti come quello di 'Mario' (il nome di fantasia attribuito all’uomo tetraplegico che nelle Marche vorrebbe suicidarsi e che chiede di essere aiutato a farlo) e afferma la libertà di ciascuno di decidere sulla propria vita, ma supera il caso individuale, creando categorie di persone che conducono un’esistenza 'dolorosa e non degna, dunque insostenibile' (concetto ambiguo e pericolosissimo), e fissa criteri in base ai quali dare la morte a chi vive una di queste vite (e in alcuni Paesi europei dalla personale richiesta esplicita e consapevole di morire si sta arrivando alla decisione d’altri, anche nei confronti di persone minori d’età, sulla base del presunto 'miglior interesse' del paziente o del disabile). Insomma, anche se le intenzioni sono le migliori di questo mondo, anche se si persegue la giustizia o la compassione o entrambe, se e quando la legge di uno Stato non si pone più l’obiettivo esclusivo di difendere e sostenere la vita dei cittadini, ma trasforma lo Stato stesso in erogatore di servizi di morte, finiscono per generarsi pericoli gravi e derive mostruose. Per questo anch’io, come lei e come una moltitudine di persone, mi batto tenacemente contro la pena di morte e contro le guerre e il bellicismo e vorrei archiviare definitivamente aborto ed eutanasia, perché non sono 'diritti civili', ma terribili drammi civili.
Molti colleghi e molte colleghe la pensano diversamente rispetto a quanto ho appena scritto e tendono a tacitare chi non è d’accordo e ha cose da dire (e qualche volta, per sovrappiù, a stravolgerne le posizioni). Posso testimoniare che però ci sono – è stato il caso del Tg3 e di Rainews24 che tra martedì sera e mercoledì mattina hanno dato voce anche al sottoscritto o di Radio3 che ancora mercoledì mattina a 'Tutta la città ne parla' ha dato conto delle considerazioni della professoressa Assuntina Morresi, assai vicine alle mie, insieme a quelle – opposte – del legale dell’Associazione Coscioni e di Beppino Englaro).
Lei, caro amico, realizza in prima persona, con dedizione e senza clamori la prossimità a persone, appunto, sul ciglio della vita. E pur essendo uomo di legge non vive e sentenzia dall’alto e in nome di una legge che in questi casi non potrà mai comprendere e regolare tutto ciò che umanamente significa stare accanto ed essere accuditi, ricevere e dare. Scambievolmente. E non soltanto da parte di chi, come noi impegnati a vivere una vita 'degna' e sperabilmente 'sostenibile', finge o si illude di essere sano. Grazie, mille volte grazie.