Opinioni

Inchiesta. Mauritania al bivio tra petrolio e schiavismo

Federica Zoja venerdì 13 maggio 2016
Sui cieli di Mauritania si addensano nubi nere, cariche di elettricità. Gli aruspici avrebbero compito arduo nel comprendere se all’orizzonte si stia prefigurando un’altra Primavera araba oppure l’ennesimo golpe della regione. Ma in pentola bollono cambiamenti drammatici per l’Africa sahariana e sub-sahariana. I segnali abbondano. L’allungo del presidente Mohammed Ould Abdel Aziz, con la proposta di abolizione del Senato e di sostituzione dello stesso con Consigli regionali, pare aver innescato la scintilla della rivolta in un tessuto sociale già altamente infiammabile. Ould Abdel Aziz, militare di carriera, guida la Repubblica islamica di Mauritania dal 2008, anno in cui rovesciò con un colpo di Stato il predecessore, Sidi Ould Cheikh Abdallah (economista, eletto nel marzo del 2007 dopo che un golpe aveva spazzato via vent’anni di presidenza di Maaouya Ould Sid’Ahmed Taya nel 2005, ndr). Per pochi mesi premier, Ould Abdel Aziz è stato eletto presidente della Repubblica nel 2009 e poi ancora nel 2014. A questo punto, se la Costituzione non fosse emendata, il suo iter sarebbe in dirittura d’arrivo. Se però tutte le modifiche che ha in mente e che ha lasciato intendere dall’inizio dell’anno andranno in porto, non ci saranno più limiti.Lo scorso 7 maggio, le opposizioni sono insorte contro il progetto di revisione costituzionale non concordato attinente appunto la Camera alta: manifestazioni hanno segnato le strade della capitale Nouakchott; migliaia di persone hanno marciato scandendo gli slogan 'Vattene!' e 'No alla banda dei predoni!'. I dieci partiti che si sono coordinati nel Forum per la democrazia e l’unità (piattaforma nata nel 2014 e inclusiva di figure politiche indipendenti e sindacalisti) rifiutano qualsiasi dialogo con la presidenza e il progetto di un Referendum costituzionale poiché ritengono che modifiche e tempistica siano già stati decisi. Inoltre, temono che si tratti di una manovra per distrarre l’opinione pubblica da una trasformazione ben più radicale: quella da Repubblica semi-presidenziale a dittatura. I vertici delle Forze armate rappresentano una variabile fondamentale: non è chiaro se siano soddisfatti dell’operato del presidente in questi otto anni di gestione. I conti non tornano, sostengono i detrattori di Ould Abdel Aziz. Torneranno, argomentano invece i suoi supporter. Di recente, infatti, prospezioni geologiche hanno individuato fra Mauritania e Senegal immensi campi di gas e giacimenti di petrolio. I due Paesi hanno i numeri per diventare autonomi sul piano energetico e pure produttori di primo piano.All’appuntamento con la fortuna, però, bisogna arrivare preparati. E’ facile immaginare le mire dei predatori internazionali: forti investitori statunitensi si stanno già muovendo per ottenere licenze strategiche; i canadesi di Kinross, posizionati da anni nel Nord del Paese nelle miniere d’oro, hanno buone possibilità di espandersi; voci danno anche i cinesi in pole position per entrare sul mercato mauritano. Tuttavia, gestire flussi di investimenti non sarà niente rispetto a contrastare i nemici. E gli analisti danno per scontato che anche questi si manifesteranno numerosi nell’arco di poco tempo: che cosa direbbe Parigi dell’indipendenza mauritana in ambito economico e, probabilmente, politico?L'ex colonia è ancora legata 'mani e piedi' alla Francia da accordi-capestro difficili da rescindere. E si sa che il Quai d’Orsay è rapido a intervenire quando gli interessi francesi sono a rischio. In secondo luogo, se Nouakchott, come pare sia intenzione del gruppo dirigenziale mauritano, dovesse immettere sul mercato degli idrocarburi fiumi di greggio in barba ai diktat di Riad – che cerca un accordo fra i Paesi produttori per congelare i quantitativi e far salire così il costo del greggio – la furia dei Saud potrebbe riflettersi nell’isolamento politico della nazione. Per questo la Mauritania deve tessere adesso una rete di rapporti solidi e collaborativi nell’Africa occidentale. Nel frattempo, i jihadisti di al-Qaeda nel Maghreb (Aqmi) sono dietro l’angolo. Dopo i noti attentati e rapimenti degli anni 2007-2011, un’offensiva di esercito, servizi segreti e autorità religiose articolata su più piani – anche luoghi di culto e prigioni – ha tolto terreno al reclutamento salafita. Ansar Eddine, gruppo affiliato ad Aqmi, ha però ricominciato a minacciare la Mauritania 'miscredente' fra la fine del 2014 e l’estate del 2015. Proprio come Mali, Burkina Faso e Costa d’Avorio. Un drammatico destino che tocca alle nazioni in via di sviluppo e assetate di autodeterminazione.Ma il nemico peggiore dello sviluppo socio-economico mauritano potrebbe non essere esogeno. A cavallo fra le nazioni nordafricane e il cuore occidentale del continente nero, la Mauritania vive sulla propria pelle la tensione fra chi vorrebbe valorizzare l’identikit culturale arabo – e quindi avvicinarsi al polo magnetico dei sultanati – e quello africano. Certo, un’avanguardia intellettuale crede nella progressiva armonizzazione delle due anime, ma la popolazione (meno di 4 milioni di persone, di cui 30% di origini arabe, 30% africane e il restante di etnia mista) non ha ancora fatto i conti con pesanti strascichi del passato. Come dimenticare il nodo irrisolto della schiavitù, abolita nel 1981, ma, secondo il Consiglio delle Nazioni unite per i diritti umani (Acnur), ancora oggi fenomeno radicato in Mauritania più che in qualsiasi altro angolo di mondo? L’argomento è tabù: «Tutti sanno che chi parla dell’esistenza della schiavitù in Mauritania non dice la verità», ha dichiarato il presidente poche settimane fa.Eppure, i numeri più accreditati attestano un minimo di 4% e un massimo di 17% dei mauritani ridotti in schiavitù. Quali mauritani è ovvio: quelli di etnia africana. Lo schiavismo, per dirla in modo chiaro, ha scritto la storia dei rapporti fra le etnie, in Mauritania. Per alcune comunità, il tema è bruciante: da tre anni, gli Harratin, i discendenti degli schiavi del Sahel (e talvolta ancora schiavizzati), si riuniscono il 29 aprile a Nouakchott per ricordare a tutti l’orrore. L’appuntamento è criticato, se non ostacolato, dalle autorità: chi denuncia oppure dà voce agli episodi di schiavismo è accusato di voler macchiare l’immagine dell’islam e di servire potenze occidentali cristiane o filoebraiche (i circa 5 mila cristiani di Mauritania se la cavano ancora discretamente, comunque, rispetto ad altre aree del globo). La giustizia difficilmente fa il suo corso persino quando gli schiavi sono minorenni. È in questa tragedia collettiva mai esplicitata che si innestano la retorica jihadista, il braccio di ferro islam-resto del mondo, l’autoritarismo politico. Ed è in questa diseguaglianza che la Mauritania ha la sua vera bomba ad orologeria, il cui tic tac si fa più sempre più insistente.