Opinioni

La sentenza del Consiglio di Stato. Matrimoni gay e attacco al cattolico: giudizio e pregiudizio

Francesco Ognibene mercoledì 28 ottobre 2015
Un giudizio amministrativo saldamente fondato sulla Costituzione repubblicana (articolo 29) e sui princìpi cardine del nostro ordinamento ha, dunque, reso di nuovo chiaro che un «matrimonio tra persone dello stesso sesso» che in Italia è impossibile e in alcuni altri Stati è invece è possibile non può essere "importato" come se nulla fosse, in spregio a norme interne, a convenzioni internazionali e trattati chiarissimi sul punto. E questo con buona pace di Ignazio Marino – quasi ex sindaco di Roma – e degli altri primi cittadini che nei mesi scorsi l’avevano avventurosamente e avventamente seguito sulla via della violazione-invenzione della legge, impartendo l’ordine di registrare nelle rispettive anagrafi comunali unioni e matrimoni gay celebrati all’estero. Una rischiosa deriva che il ministro dell’Interno Angelino Alfano con saggia misura – ora è chiaro una volta per tutte – aveva saputo frenare in modo tempestivo e che un Tar aveva invece inopinatamente ricominciato. Ebbene, di fronte a tutto questo, ai soliti noti, è parso utile e persino astuto cambiare discorso. Aprendone uno altrettanto grave: l’attacco alla persona di fede cattolica che serve con scienza, coscienza, disciplina e onore lo Stato di cui è cittadino, ma che in quanto credente (e portatore sano di visioni di coscienza, oltre che di un incensurabile senso del dovere civico) di fatto sarebbe di "serie B".Se non fossero allarmanti, le reazioni stizzite alla sentenza del Consiglio di Stato si coprirebbero di ridicolo per gli argomenti inconsapevolmente grotteschi che ostentano. Affermare infatti che un giudice dovrebbe astenersi da verdetti sul matrimonio in quanto "cattolico" è semplicemente assurdo, se non offensivo, e la dice lunga sul livello al quale è possibile arrivare quando – messa da parte l’intelligenza – si imbraccia il randello dell’ideologia senza rendersi conto della gravità di quanto si afferma. È irresponsabile esibire – com’è accaduto ieri sera sui principali siti informativi italiani – nome, volto e biografia del giudice estensore della sentenza "reo" appunto di essere un cristiano definendolo apertamente «fazioso», «integralista» e «omofobo», stabilendo che gli è negata la titolarità di libere opinioni in questioni sulle quali è in corso un confronto aperto nella nostra società, e trascurando che ogni atto di un organo giudicante come il Consiglio di Stato è collegiale (in questo caso i magistrati all’opera erano ben cinque), non frutto di protagonismi incontrollati.Troppo facile ricordare che giudici di ogni ordine e grado, e persino presidenti della Corte Costituzionale, hanno sinora potuto esprimere senza alcuna contestazione e in ogni sede il proprio pensiero su temi oggetto di sentenze discusse, delle quali erano stati parte in causa, senza che nessuno avesse nulla da eccepire, anzi. Una libertà evidentemente garantita dal fatto che si trattava di verdetti in direzione diversa e qualche volta opposta rispetto a quello del Consiglio di Stato. La pubblica gogna riservata invece a uno tra i giudici della sentenza sulle "nozze gay", scatenando un’inquietante caccia all’uomo, segna il superamento di una soglia che occorre richiudersi alla svelta dietro le spalle prima che i semi dell’intolleranza si disperdano senza controllo.Che cosa, dunque, fa saltare i nervi ad alcuni, irrita altri, imbarazza primi cittadini e arriva persino a indurre una opportuna ulteriore riflessione sulla tribolata (e ancora mal congegnata) legge sulle unioni civili? La lettura del pronunciamento col quale la massima magistratura amministrativa del Paese ha dichiarato «inesistente» l’atto del Comune di Roma per la trascrizione nel registro di stato civile di matrimoni tra persone dello stesso sesso celebrati all’estero riserva la "sorpresa" di porre di fronte a un semplice e argomentato ritorno alla realtà. Si tornano a leggere parole persino ovvie come quelle spese per ricordare che «la diversità del sesso dei nubendi» è «la prima condizione di validità ed efficacia del matrimonio».Non ce lo dice forse la realtà? Non è questa la lezione della nostra stessa esperienza di essere figli di un padre e una madre, cresciuti in famiglie «fondate» da una madre e da un padre? E se non basta prendere atto della diversità di sesso come «connotazione ontologica essenziale dell’atto di matrimonio», allora si ascoltino per davvero (e non si pieghino a proprio comodo) la Corte Costituzionale, la Corte di Cassazione, la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo e le loro sentenze puntigliosamente citate dal Consiglio di Stato. E se ancora non è sufficiente, allora si facciano onestamente i conti, proprio come i giudici amministrativi, con «l’infrangibile ostacolo» dell’articolo 29. La Carta è chiara nei suoi valori cardine. Piaccia o non piaccia. E a noi cittadini cattolici di un libero Paese piace sempre, piace tutta.