Editoriale. Ancora su Matilde, sull'amore e sul paradosso della fede
L’amore lo fa. Disarma la rabbia, attenua la solitudine dell’abbandono, dà un senso alla sofferenza. Ed è davvero un miracolo, d’amore appunto, quando un cuore spezzato, così in profondità da non poter guarire, trova le parole per dire la bellezza di continuare a vivere. Nel nome di chi, almeno in apparenza, non c’è più. Chi era a Giaveno, in Piemonte, ai funerali di Matilde Lorenzi, può dire che sì, ha assistito a un miracolo, racchiuso in un’unica, semplice parola, piccola eppure oggi così enorme da pronunciare: grazie. I genitori della giovane atleta morta lunedì scorso hanno detto proprio così: grazie. «Io e papà – ha spiegato mamma Elena rivolta alla figlia – abbiamo avuto la fortuna di essere stati scelti da te». E allora anche chi non ha conosciuto Matilde può immaginarne il sorriso, la gioia nel suo scivolare sulla neve ghiacciata con in faccia il freddo del mattino, la passione per la montagna. Che oggi nessuno accusa di essere assassina o maledetta, così come non esiste al mondo che si incolpi lo sci, sulle cui piste una diciannovenne promessa azzurra ha trovato la morte in maniera assurda, durante un allenamento in Alto Adige.
Matilde, infatti, amava profondamente quello sport, al punto che se oggi la sua famiglia lo abbandonasse, sarebbe un tradimento imperdonabile. Vorrebbe dire soffocare la memoria di una passione, che significa fatica e gioia, impegno e speranza di futuro. E invece sul sagrato della chiesa di San Lorenzo riempita all’inverosimile per un ultimo saluto commosso, i verbi erano al presente ma proiettati sull’oltre, sul dopo. Quasi che le lacrime fossero davvero un collirio per pulire gli occhi, in modo da vedere anche quello che resta invisibile alla ragione. «Matilde cara – ha detto il vescovo ausiliare di Torino, monsignor Alessandro Giraudo durante l’omelia dei funerali – custodisci chi ti amato, custodisci chi hai incontrato, custodisci chi guardando a te avrà il coraggio di mettere in gioco la vita, di desiderare di vincere e di sperimentare quella vittoria che è l’ultima parola, la vittoria della luce e della vita». Parole che spiegano il meraviglioso paradosso della fede, che cerca nella fine un nuovo inizio, che usa il filo della preghiera per legare insieme la terra e il cielo, che quando resta soltanto il silenzio, si affida all’alfabeto delle lacrime. Lo spiega benissimo Lucrezia, la sorella di Matilde, sciatrice a sua volta, che confessa: «Ci lasci un vuoto immenso, devastante, da lunedì mi manca l’aria». Ma subito dopo, ecco il futuro che bussa, come un anticipo, oggi sofferto ma domani luminoso, dell’eterno presente che sarà: «Sono sicura che sarai proprio tu a guidarmi nelle scelte. Sono immensamente grata di averti avuto come sorella».
Ancora il vocabolario dell’affetto, ancora la speranza, ancora un abbraccio, virtuale eppure concretissimo, per provare a superare la solitudine di un vuoto improvviso, e per questo più terribile. Ancora, soprattutto, la gratitudine. Certo, sempre ai funerali si cerca un barlume di luce anche nell’esistenza di chi ha orientato ogni suo giorno al buio più cupo, perché solo il buon Dio conosce fino in fondo ciascuno dei suoi figli. Ma qui siamo oltre, qui è regalare una carezza alla vita che ti ha tirato un pugno in piena faccia. Qui è la fede che ti scava dentro per dare uno scopo al dolore. Qui è un miracolo. Così bello, ostinato e puro da spingere a dire grazie per l’esistenza ricevuta chi in realtà l’ha donata: «Io e papà abbiamo avuto la fortuna di essere stati scelti da te come genitori». Perché l’amore cambia le regole, rovescia i ruoli, consola, unisce i cuori. Sì, l’amore lo fa.