Opinioni

Cristiani d'Oriente e di Occidente. Martiri, una domanda per tutti noi

Giorgio Paolucci lunedì 10 agosto 2015
Papà, chi è un martire?». Il figlio di un mio amico, un bambino di dieci anni, ha orecchiato distrattamente il termine durante una trasmissione televisiva, e chiede al padre di saperne di più. Per cavarsela al volo, il genitore ricorre alle immagini di qualche film che narra l’odissea dei cristiani alle prese con i leoni nell’arena del Colosseo o che si radunano nelle catacombe. Eppure, basterebbe guardare a quello che sta accadendo oggi in Siria, in Iraq o ad altre latitudini per capire che il martirio non è un ricordo del passato, ma un fatto che attiene al presente del cristianesimo. Riguarda centinaia di migliaia di persone perseguitate a causa del Vangelo. Da tempo i cristiani d’Oriente cercano di scuotere il silenzio e l’inerzia della comunità internazionale, come ha fatto – per l’ennesima volta – papa Francesco nella lettera inviata pochi giorni fa al vicario patriarcale per la Giordania tramite il segretario generale della Cei, Galantino, in visita ai profughi di quelle zone. Chiedono interventi urgenti e adeguati per la tutela di tutte le minoranze etniche e religiose che vedono in pericolo la loro stessa sopravvivenza sotto l’incalzare della furia devastatrice dello Stato islamico, un mostro che porta nel suo Dna la demolizione dell’altro, del diverso da sé, proprio in una regione che per secoli ha fatto dell’incontro con l’altro la radice profonda della sua stessa esistenza. Ma ciò che colpisce di più nell’atteggiamento di tanti cristiani d’Oriente è quel loro custodire gelosamente il tesoro che dà senso all’esistenza. Emblematico quanto dice il patriarca dei caldei iracheni, Raphael Sako, in un libro-intervista appena pubblicato, Più forti del terrore: «La fede da noi non è speculativa, è una questione di amore e di attaccamento alla persona di Cristo. È come la farina nel pane, non si può estrarla. È la cosa più grande, per la quale si è pronti a sacrificarsi. Credere è essere». Fanno impressione parole come queste, a noi cristiani d’Occidente, usi magari a considerare la fede come un soprammobile da esporre nel salotto dei valori, qualcosa che non turbi la quiete di una società sempre più abituata a vivere come se Dio non esistesse. O che considera l’esperienza religiosa una mina vagante da sorvegliare piuttosto che una risorsa per l’esistenza. I nostri fratelli d’Oriente testimoniano a noi, anestetizzati da decenni di dosi crescenti di relativismo assoluto, che c’è qualcosa, anzi Qualcuno, per cui vale la pena vivere e morire. Qualcuno che per amore ha accettato il sacrificio estremo della croce, e a cui guardare quando ci viene chiesto di salire sulla nostra croce, nella certezza che la morte non prevarrà. Ad Aleppo, in una parrocchia situata a poca distanza delle postazioni dei miliziani dello Stato islamico, in una zona dove ogni giorno si sente il crepitare delle mitragliatrici e il fragore delle bombe, il francescano Ibrahim Alzabagh anima da settimane un oratorio estivo a cui partecipano duecento ragazzi, e di cui questo giornale ha più volte dato conto. Nella loro giornata c’è sempre lo spazio per una preghiera che è insieme supplica e certezza. Dice fra Ibrahim: «A Dio nulla è impossibile, per questo chiediamo a Lui il dono della pace e preghiamo perché tocchi il cuore di chi semina il male. Pur dentro la nostra evidente precarietà, viviamo nella certezza che Gesù risorto fa compagnia all’uomo in ogni circostanza, e che il male non è l’ultima parola sul nostro destino. Non sappiamo quello che sarà di noi domani, ma siamo certi che il Padre buono non abbandona i suoi figli». Potremmo cavarcela dicendo che questa è gente più coraggiosa di noi. Ma non è una questione di coraggio. Gente così ci testimonia che c’è un tesoro che tiene in piedi l’esistenza, a cui non si è disposti a rinunciare. E ci induce a domandarci: qual è il nostro tesoro?