Opinioni

Verso la beatificazione. I monaci di Tibhirine martiri per amore: «con» e mai «contro»

Giorgio Paolucci domenica 2 dicembre 2018

Sabato prossimo, 8 dicembre, verranno proclamati beati 19 religiosi uccisi in Algeria nella tragica stagione che nell’ultimo decennio del secolo scorso ha visto morire 150mila persone, vittime della violenza islamista e della guerra civile. Tra di loro, anche i sette trappisti rapiti nel monastero di Tibhirine nel marzo del 1996, e di cui due mesi dopo furono ritrovate le teste mozzate.

Avevano deciso di restare nella terra in cui avevano scelto di testimoniare il Vangelo – nell’umiltà e nel servizio alla popolazione locale – anche quando tutto concorreva a lasciarla, quando la violenza dell’estremismo aveva preso di mira gli stranieri “crociati”. Restare per amore del popolo di cui si sentivano parte, restare perché «non si abbandona un amico quando soffre», come scriveva il vescovo di Orano, Pierre Claverie, ucciso da una bomba insieme all’amico musulmano Mohamed Bouchikhi.

Papa Francesco ha riconosciuto il martirio di questi «testimoni della speranza» sconosciuti ai più, elevandoli agli altari. Sarebbe troppo facile acclamarli eroi – e, in fondo, liquidarli nel nome di una straordinarietà che non può appartenere a persone normali – o ricordarli come “martiri contro”, piuttosto che come “martiri con”.

Non si può cogliere fino in fondo il significato del loro sacrificio se non si guarda alla radice profonda delle loro esistenze, alla croce su cui Gesù a braccia aperte ha voluto radunare tutti gli uomini perché figli di Dio. Le pagine del libro “La nostra morte non ci appartiene” scritto da Thomas Georgeon – il monaco trappista postulatore della causa di beatificazione dei 19 religiosi – ne raccontano in maniera commovente le biografie: e si rimane colpiti dalla radicalità con cui hanno vissuto, senza pretese per l’esito “pubblico” della loro presenza – spesso costretta al silenzio o alla riservatezza – e interamente fondata sull’offerta di sé, sull’attrattiva per un Amore che aveva conquistato il loro cuore e al quale avevano deciso di dare tutta la loro vita. Per quell’amore sono morti i sette monaci di Tibhirine, resi famosi e familiari al grande pubblico dal film “Uomini di Dio”, per quell’amore sono morte tre suore uccise in strada mentre andavano a Messa e altre due che rientravano dopo avervi preso parte.

Arriva dall’Italia una notizia che ci aiuta a cogliere il significato di una vita donata. Dal monastero di Vitorchiano, in provincia di Viterbo, partirà un piccolo gruppo di suore trappiste per una nuova fondazione in Portogallo, rispondendo alla richiesta del vescovo della diocesi di Bragança-Miranda, monsignor José Cordero. Per edificare un nuovo tabernacolo in una terra che – come tutta l’Europa – è percorsa dal vento secco della scristianizzazione, per fare memoria di ciò che davvero conta nella vita, per fare risplendere la luce di Cristo che rende fratelli anche degli sconosciuti, per testimoniare un Amore “senza se e senza ma”. Due segni di dedizione totale all’ideale, che scuotono il torpore e recintate certezze in cui tanti cristiani si sono accomodati, riducendo la fede a un soprammobile polveroso che non dice più nulla all’esistenza. Uomini e donne a cui possiamo guardare per imparare cosa significa donare la vita, come ci ha testimoniato per primo Chi lo ha fatto accettando la croce, e cominciando una rivoluzione d’amore che ha cambiato il mondo.