La libertà su cauzione, concessa ieri ai fucilieri di Marina Girone e Latorre dall’Alta Corte del Kerala, è di certo un progresso verso la soluzione positiva della vicenda.
Arriva assurdamente tardi, perché i nostri due soldati sono da tre mesi detenuti anche se fin dall’inizio hanno mostrato di voler collaborare con le autorità indiane. Ed è gravata da condizioni parimenti incredibili (consegna del passaporto, allerta generale a porti e aeroporti per impedir loro di fuggire dall’India, firma in commissariato ogni mattina a una certa ora…) se applicate a due ufficiali di un Paese amico come l’Italia. Ma queste sono le condizioni in cui, fin dal primo momento, si è dipanata tutta la vicenda, gestita dalle autorità indiane come un “casus belli” da sfruttare per mostrare i muscoli (fuori) e per realizzare (dentro) un’operazione di propaganda politica.Mentre una minima sensibilità per la memoria dei due pescatori uccisi Valentine Jelastine e Ajesh Pinku, in molti momenti restava affidata quasi solo ai sacerdoti della locale comunità cristiana e, paradossalmente, agli italiani su cui ricadeva la responsabilità della loro morte. Da questo punto di vista, l’altro ieri, l’Alta Corte del Kerala ha fatto anche un passo indietro, non meno insidioso e significativo. Ha condannato infatti il governo italiano e gli eredi dei due pescatori a una multa: l’equivalente di 1.400 euro per l’Italia e di 144 per ciascuna delle due famiglie. Nulla per noi, tantissimo per povere famiglie di pescatori di uno Stato dove, secondo le statistiche, un salario di 800 euro l’anno già identifica la buona borghesia. La loro colpa? Aver raggiunto con lo Stato italiano un accordo extragiudiziale di composizione della vicenda. Ovvero, una misura repressiva nei confronti di un accordo che in nessun modo può influire sul corso dell’eventuale processo. Le ragioni di questo provvedimento sono piuttosto evidenti. Da un lato il governo centrale dell’India, attraverso le autorità locali, mostra di volere lo scontro a tutti i costi. Sono passati tre mesi e ancora nessuna prova inoppugnabile è stata presentata per smentire la tesi dei due marò, mentre molte obiezioni legate ai trattati internazionali (dallo status dei militari a bordo delle navi commerciali in zona di pirateria all’estensione delle acque territoriali, alla giurisdizione dei tribunali nazionali in casi di questo genere) sono state respinte senza discussione.
In questo braccio di ferro, un’eventuale umiliazione dell’Italia non sarebbe molto utile all’India in campo internazionale. Ma lo sarebbe in campo interno. Il Kerala è lo Stato indiano con il più alto tasso di alfabetizzazione e quello con il quadro politico più curioso e (pacificamente) ribelle rispetto agli equilibri del Governo centrale. Non solo: negli ultimi due anni, sfruttando la leva economica, il Kerala è stato sottoposto a un processo di “induizzazione” che ne sta cambiando gli equilibri. La povertà spinge l’emigrazione (e infatti il 60% della ricchezza dello Stato è formato dalle rimesse degli emigrati) che tocca però soprattutto i musulmani (26% della popolazione, ma 45% degli emigranti) e i cristiani, che erano il 25,1% della popolazione nel 2003 e sono rimasti il 17,5% nel 2011. Lo spazio viene pian piano occupato dagli indù, che sono ormai il 56% della popolazione totale (ma solo il 37% tra gli emigranti). Accanirsi contro Girone e Latorre e cercare la prova di forza con il governo italiano serve proprio a questi scopi: tenere a bada le minoranze, esaltare la maggioranza indù (81%) e quindi conquistarne i voti, enfatizzare la forza del governo centrale. Ai marò il processo per forza, ai cristiani le solite discriminazioni. Come da regolamento.