Caro direttore,le scrivo (purtroppo in ritardo) dopo aver letto l’articolo di “Avvenire-Roma Sette” del 1° febbraio 2015, firmato da Angelo Zema, nel quale si critica aspramente la delibera approvata lo scorso 28 gennaio dall’Assemblea Capitolina sull’istituzione del Registro delle Unioni civili. Come spesso è capitato in altre occasioni, non si tratta tanto di rispondere nel merito sul valore di questa scelta, quanto piuttosto sulle interpretazioni da attribuire alla decisione maturata dalla nostra amministrazione, che io considero importante per i diritti delle persone. In questo caso si accredita addirittura l’idea, cito testualmente che «quel voto equipara le unioni civili, anche dello stesso sesso, al matrimonio». Sarà quindi bene fare un po’ di chiarezza.Al Registro istituito con la delibera di Roma Capitale possono chiedere di essere iscritti i cittadini e le cittadine legati da vincoli affettivi, sia di sesso diverso che dello stesso sesso, al fine di vedere riconosciuta la propria unione, per poter usufruire di quegli istituti, di quelle facoltà e di quelle occasioni che l’ente locale offre a tutti coloro che si trovano nella condizione di condurre una vita di coppia.Si tratta di un riconoscimento fondato sul legame affettivo, connotato da caratteristiche quali la stabilità, la comunanza di interessi e la reciproca solidarietà ed assistenza, che non costituisce alcuna formale equiparazione alla figura giuridica del matrimonio. Ad esempio, l’unione civile non ha nessuna efficacia rispetto ai rapporti patrimoniali o di successione, né crea legami di affinità con i parenti dell’altro convivente, e soprattutto non istituisce una fattispecie giuridica di rapporto nelle forme stabilite dall’articolo 29 della Costituzione. Più semplicemente è una forma di ufficializzazione dell’esistenza di una relazione affettiva consolidata, con l’obiettivo di evitare che le persone che la compongono possano essere svantaggiate o addirittura discriminate rispetto ad altre.Con l’istituzione del Registro delle unioni civili, Roma Capitale ha quindi operato nell’interesse generale dei cittadini e delle cittadine, per promuovere pari opportunità alle unioni di fatto, favorendone l’integrazione sociale e prevenendo forme di discriminazione e disagio. In particolare, le coppie iscritte potranno beneficiare di uguali condizioni di accesso ai servizi e alle attività istituzionali, all’interno delle aree tematiche specificamente elencate dalla delibera. Per fare un esempio pratico sino ad oggi una donna di una coppia eterosessuale, non unita da matrimonio ma da 30 anni di amore e da 4 figli in comune non poteva andare ad accarezzare la mano al suo compagno di una vita colpito da infarto e ricoverato in rianimazione perché per la legge si tratta di una estranea. E allo stesso modo se una coppia di donne omosessuali che convive da vent’anni dovesse essere colpita dalla morte di una delle due, e se a morire fosse l’intestataria del contratto d’affitto l’altra non avrebbe alcun titolo a rimanere in quella casa.Insomma, Roma ha compiuto un percorso che attiene puntualmente alle competenze di un’amministrazione locale e che non pretende di stabilire alcuna equiparazione con il matrimonio, la cui regolamentazione spetta alla legge dello Stato.
Ignazio Marino, sindaco di RomaRitengo giusto, gentile sindaco Marino, affidare il “grosso” della risposta alla sua utile lettera ad Angelo Zema, coordinatore di “Avvenire–Roma Sette” e autore del pacato e documentato commento al quale lei si riferisce e che, a suo parere, sarebbe stato segnato da “asprezza”. Non è così, perché non è mai questa la cifra delle nostre analisi: la chiarezza basta e avanza. Anche lei, con questa lettera, di chiarezza ne fa un po’ di più sulle motivazioni che hanno spinto ad agire la giunta e la maggioranza che governano Roma. Apprezzo il suo tono e una parte degli argomenti che usa e ai quali il collega Zema replica con garbo ed efficacia. Io mi limito, perciò, a insistere soltanto su un punto, niente affatto banale, che emerge – direttamente o indirettamente – proprio dalle sue parole: l’istituzione dei “registri delle unioni” ha, in sostanza, valore propagandistico, è atto politico di pressione sul legislatore perché cambi princìpi (di rango costituzionale) e norme in materia matrimoniale e familiare. Per questo l’abbiamo liberamente e convintamente contestato. Ripeto, gentile sindaco, una cosa che scrivo e dico spesso: più solidarietà tra le persone è un bene, la confusione è sempre un male. E confondere il matrimonio, “luogo” dei figli, con rapporti che matrimoniali non sono e, nel caso di persone dello stesso sesso, non possono essere è un grande male. Lo dimostrano le tristi e persino terribili pratiche che una pretesa travestita da «pari opportunità» induce: dalla compravendita di gameti umani per la fecondazione artificiale all’utero in affitto di povere madri ridotte a “fattrici” di creature umane per ricchi e ricche committenti.Marco TarquinioCaro sindaco,
colgo nella sua lettera alcune affermazioni alquanto differenti da certe argomentazioni utilizzate in occasione dell’approvazione del registro delle unioni civili a Roma. Riporto una sua dichiarazione: «Roma, col suo esempio, spera di poter sbloccare le titubanze dei legislatori che da troppi anni eludono un pieno riconoscimento dei diritti civili di tutte le coppie, indipendentemente dal loro orientamento». Un segnale politico, insomma. E questo è il primo aspetto, da cui siamo partiti per mettere in luce quello che abbiamo definito «bluff ideologico». Perché in realtà è innanzitutto «nel merito sul valore di questa scelta» – per stare alle sue parole – che crediamo sia giusto discutere. E, liberamente, dissentire.
Come si può poi condividere la considerazione che la decisione sia «nell’interesse generale»? Chi le assicura che la maggioranza dei romani sostenga tale iniziativa? Per comprendere come stanno le cose, basterebbe vedere l’impatto – praticamente nullo – che ha avuto l’istituzione di registri analoghi in alcuni Municipi romani. Ma è la sostanza che più conta. Quanto infatti alla sua sottolineatura della mancata equiparazione al matrimonio, al richiamo alle pari opportunità e alla prevenzione di forme di discriminazione, è proprio su questo che bisogna interrogarsi. Discriminazione rispetto a cosa? A quali figure? Se si concedono «pari opportunità» alle unioni diverse dal matrimonio negli ambiti di competenza comunale, non è forse una (neanche tanto) mascherata equiparazione ai diritti della famiglia, «fondata sul matrimonio» ed espressamente riconosciuta e tutelata dalla Costituzione? Per non parlare dell’affissione/pubblicazione di un atto con i dati degli interessati e della disponibilità di locali comunali per la “cerimonia” di iscrizione al registro analogamente alle celebrazioni dei matrimoni civili: qualcosa che «scimmiotta il matrimonio», come ha detto un giurista. Vale poi la pena ricordare che «la Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi» (articolo 31 della Costituzione), anche se purtroppo a Roma in questo ultimo anno e mezzo la famiglia è stata dimenticata. Quindi, se si parla di discriminazioni, sarebbe il caso di guardare ad altro, soprattutto per le famiglie con figli, specialmente per le più numerose. Va detto poi che molti diritti delle convivenze, al contrario di quanto con insistenza sostiene la maggior parte dei media, sono già tutelati dal diritto comune e dalla giurisprudenza (anche rispetto alle situazioni che lei cita, le sempre erroneamente agitate questioni della presunta negazione del diritto di subentro nei contratti di affitto e di una presunta impossibilità di assistere un partner, o un amico, malato). Per queste cose non c’è affatto bisogno di un registro ad hoc, e neppure serve per tutelare situazioni di disagio economico e sociale di coloro che convivono, o per superare presunte discriminazioni. A meno che non si voglia attuare nei fatti quell’equiparazione al matrimonio che, ora, a parole si intende smentire. Cordialmente
Angelo Zema