Scintille di bellezza/5. Anna vede la grandezza degli altri. E ci insegna a dire grazie
Il lago, in una mattina di sole di ottobre, è uno spettacolo. L’acqua, increspata da una bava di vento, manda miriadi di bagliori. I borghi affacciati alla costa hanno dimenticato la frenesia dell’estate. Tra i vicoli stretti si diffonde il profumo del caffè. Nei porticcioli le barche beccheggiano pigre.
Chiudo gli occhi, respiro a pieni polmoni. È un dono essere lì, con tutta quella pace intorno.
Mi riscuoto: tra dieci minuti devo entrare in una sala conferenze, mi hanno invitato per una testimonianza con molte classi di una scuola media.
Dopo l’introduzione, studentesse e studenti dell’indirizzo musicale propongono un paio di brani classici. Poi intervengo io: parlo a braccio come sempre, per circa mezz’ora.
Dopo di me tocca a una donna. Avanza al centro della sala, prende il microfono. È alta, slanciata; ha qualcosa di nobile nel modo di fare. Tiene i capelli raccolti sulla nuca. Sorride gentile, saluta le ragazze e i ragazzi, stringe la mano agli organizzatori, ma sul suo viso c’è un’ombra difficile da scacciare.
Si presenta: si chiama Anna. Ha un anno meno di me. Dice che è sposata, che ha una figlia di tredici anni. Penso a mia figlia: lei di anni ne ha dodici, potrebbero essere amiche. Quella donna stessa potrebbe essere un’amica di famiglia, una delle persone con cui ci si trova per una pizza insieme o per sfidarsi a qualche gioco di società.
Anna racconta della sua vita: un appartamento in città, il lavoro suo e del marito, la scuola della figlia. Tutto normale, così simile alla mia situazione.
Anna racconta della sua vita, di com’era prima. Perché la sua vita adesso non c’è più.
Un giorno Anna si sveglia per delle forti esplosioni. Perché Anna è ucraina, vive a Kharkiv.
Il giorno in cui l’esercito russo attacca la sua città, la vita di prima di Anna finisce per sempre. Ne inizia un’altra, da incubo, con suo marito che parte per il fronte e le notizie che arrivano sempre più scarse, sempre più confuse.
«Io e mia figlia abbiamo vissuto per settimane chiuse in cantina come topi – racconta –. Le esplosioni in città erano decine ogni giorno. Non potevamo uscire, o rischiavamo la vita. Poi è arrivata la primavera, e allora abbiamo cominciato a uscire lo stesso. Avevamo bisogno di luce, di aria: non si può vivere rinchiuse per sempre. Uscivamo nonostante i rischi, affidandoci alla sorte. Alla fine, è arrivato quel pullmino».
Anna a questo punto si volta. Prende in mano un piccolo trolley rosa, delle dimensioni di un bagaglio a mano da aeroplano. Lo indica, lo apre: «In questo trolley è entrata tutta la mia vita e la vita di mia figlia. Abbiamo infilato ciò che ci stava e siamo salite sul pullmino».
Il pullmino è quello di un’associazione che accoglie e ospita rifugiati. Anna e sua figlia vanno via coi volontari. Vanno via dal loro paese, dalla loro città, dalla loro casa. Tutto perduto così, in un attimo.
Mentre Anna parla, penso agli spazi che considero miei, a quelli dei miei figli. A quanto ne sono, ne siamo gelosi. A quanto sono segnati dalle nostre vite, dai nostri ritmi. A quanto nulla, mai, sia scontato.
Anna e la figlia arrivano in Italia. Anna inizia a lavorare negli alberghi sulla riva del lago, sua figlia viene inserita nella classe di una scuola media. Sono ancora lì, sradicate: Anna col marito al fronte, sua figlia senza suo padre.
Anna ha gli occhi lucidi.
Le ragazze e i ragazzi, così numerosi, così scomposti ed euforici quando sono entrati nella sala conferenze, sono tutti in perfetto silenzio.
C’è ben poco altro da aggiungere, Anna sta per concludere: «Dopo tutto quello che io e mia figlia abbiamo passato, voglio dire solo una parola. Un’unica parola».
Anna indugia un istante.
Restiamo tutti in attesa.
Cosa avrà da dire? Quale sarà quell’unica parola? Provo a ipotizzarla: pace? Libertà? Tregua? Aiuto?
Anna percorre il pubblico con lo sguardo, sembra quasi che riesca a fissare tutti, uno a uno.
«Grazie» scandisce poi.
Cosa?
Grazie?
Penso di aver capito male.
Lei coglie l’incredulità diffusa, fa sì con la testa. «Grazie» ripete, alzando la voce.
Sono basito. Come può dire grazie una persona a cui la guerra ha tolto tutto, a cui la violenza folle ha strappato la vita di prima? Perché dire grazie?
Quasi mi indigno. Io sarei infuriato col mondo, col destino, con ogni uomo armato che ha sparato un colpo contro il mio paese, e lei dice grazie?
Ma Anna, nonostante la sofferenza che traspare dal suo volto, in quel momento è profondamente serena. «Grazie» ripete per la terza volta. «Grazie perché in Italia mi sono sentita accolta. Grazie perché mia figlia ha trovato compagne e compagni sensibili, che non l’hanno mai lasciata sola, che per tutta l’estate sono rimasti con lei, invitandola a uscire ogni giorno. Grazie perché mi sono state date tante opportunità. Grazie perché, lavorando, io ritrovo la mia dignità, quella che la guerra aveva provato a cancellare. Grazie perché al mondo ci sono tante brave persone. Ora ne sono certa».
Grazie, la parola più bella del mondo.
Anna ha vinto su tutti i fronti. Anna la profuga, che sa vedere la bellezza delle persone. Anna, che non si è fatta avvelenare dall’odio. Anna, che si è rifiutata di considerare nemici gli altri esseri umani. Anna, che ha già sconfitto la guerra, definitivamente.
Mi torna in mente una frase di Luciano Ligabue, della sua canzone Luci d’America:
«Vieni qui e guarda fuori,
fammi un po’ vedere come tu la vedi.
Io vedo fumo sulle macerie,
tu guardi nello stesso punto e sorridi».
Perché alla fine è una questione di sguardo. Si tratta di scegliere se soffermarsi sulla distruzione, perdendo ogni speranza, o se cercare di scorgere i germogli che già spuntano tra le rovine. Si tratta di decidere tra il cinismo e la resa oppure la fede nei semi sotterranei, che con la loro fragile forza possono sbocciare, regalare colore e profumo.
Quando ripenso ad Anna, all’abbraccio che ci siamo scambiati alla fine di quella conferenza, mi sento un privilegiato per aver potuto assistere a quel miracolo, che mi aiuta ancora oggi a combattere la negatività tossica nel mio quotidiano. E penso che anche quelle studentesse e quegli studenti sul lungolago siano stati dei privilegiati ad ascoltarla: la scuola deve essere una palestra di futuro, e nel futuro si può credere solo se si ha la capacità di credere nella bellezza degli altri. Ci si può addentrare nella vita solo se si è certi che, sempre e comunque, incontreremo una mano tesa, in grado di afferrare la nostra e sorreggerci, anche nei momenti peggiori.
Una mano per cui poter dire grazie, la parola che uccide il male.
Insegnante e scrittore