Più che un sospetto, da mesi era una certezza. C’è al-Qaeda o comunque alcune frange jihadiste legate all’organizzazione terroristica internazionale, dietro i ribelli tuareg del Movimento Nazionale per la Liberazione dell’Azawad, la regione sahariana del Mali. Il fatto stesso che Timbuctu sia nelle mani dei gruppi Ansar Dine, sedicenti «difensori della fede», e di al-Qaeda per un’Africa Occidentale Islamica, la dice lunga sul fatto che siano proprio loro, i «radicali», gli artefici della vittoria militare. D’altronde le forze governative maliane, così come sono messe, riescono a fare ben poco dopo il colpo di Stato del 22 marzo a Bamako che ha rovesciato il legittimo presidente Amadou Toumani Touré, grande amico di Gheddafi.Bisognerà vedere se la convergenza tra gli interessi dei tuareg e quelli degli estremisti islamici continuerà a rimanere il vero collante di un’alleanza che sta destabilizzando l’intero scacchiere saheliano. Va infatti ricordato che i nomadi berberi, per quanto abbiano sostenuto con grande dignità il diritto all’autodeterminazione, a seguito della caduta del rais libico hanno ottenuto una serie di vantaggi nella cogestione dei traffici illeciti di armi e di droga assieme alle formazioni jihadiste di matrice salafita. Sta di fatto che la strada verso la vittoria tuareg, almeno nel nord del Mali, è legata all’appoggio di un certo Iyad Ag Ghaly, anch’egli tuareg ma jihadista per vocazione, leader indiscusso degli Ansar Dine. Come se non bastasse, proprio lunedì fonti di intelligence hanno riferito della presenza a Timbuctu di uno dei più importanti capi del movimento ultraradicale islamico, l’algerino Mokhtar Belmoktar. Le ultime informazioni su questo fanatico comandate di al-Qaeda lo davano tre settimane fa in Libia, in cerca di armi per i propri guerriglieri. Occorre però grande prudenza nel valutare ciò che realmente sta accadendo sul campo, perché ciò che va emergendo è un mix d’interessi geostrategici che vanno ben al di là delle convenienze di questo o quel gruppo armato. Il sottosuolo del Mali settentrionale è ricchissimo di petrolio e uranio che fanno gola ai cinesi, ma soprattutto ai francesi che qualcuno, nei circoli diplomatici di Bamako, ritiene responsabili almeno in parte dell’affermazione dei tuareg. C’è chi addirittura è convinto che i tuareg intendano sconfinare militarmente nell’Algeria meridionale, con l’intento di legare l’antica città maliana di Timbuctu, dichiarata patrimonio dell’umanità dall’Unesco, con altre città come Kidal, Gao e persino alcuni insediamenti lungo il massiccio algerino dell’Ahaggar. Verrebbe così realizzato il loro sogno di un perimetro ideale per uno Stato-nazione tuareg nel deserto. Questo scenario consentirebbe agli estremisti di al-Qaeda di avere una sorta di corsia preferenziale per accedere all’Africa Subsahariana dove, ad esempio in Nigeria, sono già operativi gruppi eversivi del calibro dei Boko Haram. Lo sanno bene i leader politici della Comunità degli Stati dell’Africa Occidentale (Ecowas è l’acronimo inglese, Cedeao in francese) che, intimando ai golpisti di andarsene, dopo aver imposto un embargo economico, hanno minacciato di inviare un contingente militare per ristabilire l’ordine costituzionale in Mali. Sapendo però bene che il vero problema, a questo punto, non è tanto la giunta al potere a Bamako, quanto le formazioni armate nordiste, fautrici del jihad. In questo quadro fosco è il popolo che continua a pagare un prezzo altissimo in termini di vite umane. Oltre a dover affrontare la già conclamata emergenza umanitaria saheliana, nel Nord del Mali gli abitanti delle città sono stati usati come scudi umani. Se la comunità internazionale non uscirà dal suo cronico letargo, si preannunciano lunghe giornate di sangue nel deserto.