Il guaio della complessità è che non si governa da sola. Lasciato a se stesso, un sistema sofisticato come può essere, per esempio, quello di una grande città difficilmente precipita nel caos. Più spesso procede per adattamenti e aggiustamenti, all’istintiva ricerca di un principio che lo regoli. Che lo governi, appunto. Sono assestamenti dapprima impercettibili, ma che finiscono con il produrre abitudini difficili da estirpare, così come – nelle parole dei magistrati che stanno conducendo le indagini – difficile da estirpare è la malapianta della ’ndrangheta. Il cuore sta a Reggio Calabria, hanno ripetuto ieri gli inquirenti, ma la più temibile organizzazione criminale del nostro Paese ha un raggio d’azione che giunge facilmente sino a Milano e nel resto dell’Italia settentrionale, investendo anche una «zona grigia» internazionale di cui le cronache si accorgono a intermittenza, come accadde nell’agosto del 2007 in occasione della strage di Duisburg, in Germania.
A Milano la ’ndrangheta non ha avuto bisogno di conquistare il centro. Ha preferito procedere dai bordi della metropoli, piuttosto, infiltrandosi nelle amministrazioni comunali dell’hinterland e sfruttando un’altra e non meno preoccupante «zona grigia», quella in cui gli imprenditori rischiano di trasformarsi da vittime del ricatto in complici di comportamenti illegali. La casistica è nota e corrisponde, grosso modo, a quella resa celebre da Roberto Saviano in
Gomorra e più recentemente analizzata da Giuseppe Catozzella in
Alveare :
il
business vertiginoso dei rifiuti tossici (e radioattivi), il meccanismo dei subappalti che permette di lucrare sulla costruzione di grandi infrastrutture, la galassia di società di comodo e di attività commerciali adoperate a copertura. Un arcipelago criminale impossibile da conoscere nella sua interezza, ma la cui esistenza, giunti a questo punto, è altrettanto impossibile ignorare. Perché – come ha sostenuto ieri il procuratore aggiunto Ilda Boccassini – ciò che contraddistingue la versione milanese della ’ndrangheta è proprio la presenza di una «visione unitaria » che, a quanto pare, latita nella società civile.
Anche al Nord, insomma, la malavita fa «sistema» (com’è noto, questo è il termine che i camorristi adoperano tra loro per riferirsi alla camorra), mentre per il resto si procede in ordine sparso. Esattamente come facevano, tempo fa, le vecchie ’ndrine litigiose e disorganizzate.
Forse è questa mancanza di progetto, questa lentezza nel riconoscere che per governare la complessità dell’economia e della convivenza occorre una logica di sistema, è questa carenza di un colpo d’occhio lungimirante ad alimentare le penombre di un’ambiguità in cui vittime e complici si confondono, si scambiano di ruolo e da ultimo si coalizzano in un rompicapo inestricabile.
Ex capitale industriale, Milano ancora non è riuscita a ripensarsi come qualcos’altro. Non è un discorso politico, tanto meno di contrapposti schieramenti. Né da «noi» né da «loro» (chiunque sia quel «noi», a chiunque corrisponda quel «loro») è finora venuta un’indicazione su che cosa sarà Milano da qui a qualche anno, quando le luci dell’Expo si saranno spente. E quella dello spegnimento sarà comunque una buona notizia, perché significherà che, nonostante tutto, le luci sono riuscite ad accendersi. L’allarme sul ruolo che la ’ndrangheta ha assunto nella metropoli verso la quale, a torto o a ragione, l’Italia continua a guardare come a un possibile modello, deve farci comprendere che nessun vuoto, e tanto meno questo vuoto di progettualità, può restare incolmato. Dove non arriviamo «noi», arrivano «loro». E «loro», questa volta, sono le onorate società.