Il mandato di Chiesa e Sinodo. Mai solo per sé
«Un canale adeguato per l’evangelizzazione [...] più che per l’autopreservazione». In questo inciso, appoggiato lì, quasi con discrezione, in apertura della Costituzione apostolica che aggiorna l’istituzione del Sinodo dei Vescovi, percepisco qualcosa di strategico e persino di emozionante. Soprattutto se lo leggo nel momento presente della Chiesa. Vediamo.
Ecco, anzitutto, la frase completa. «Il Sinodo dei Vescovi è chiamato, come ogni altra istituzione ecclesiastica, a diventare sempre più "un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione"» (n.1). Scopriamo che l’espressione che ci colpisce, in realtà, proviene dalla esortazione apostolica Evangelii gaudium (24 novembre 2013). Devo confessare che, collocata qui, la frase mi colpisce comunque in un modo nuovo, che mi accende qualcosa. Sarà per quell'inciso che precede, dove si dice che «ogni» istituzione ecclesiastica si giustifica in chiave di evangelizzazione del mondo, più che di preservazione del cristianesimo. Sarà per il fatto che qui si tratta del Sinodo mondiale dei Vescovi, che la sua potenza la contiene già tutta nella propria realtà, anche se l’esatta definizione teologica della sua formula ha conosciuto alterne vicende.
In ogni caso, l’inciso è bellissimo. Riesce quasi a riverberare sull'istituzione la forma evangelica del credente autentico. Il credente vero è uno che, appunto, non mette avanti la cura di sé.
La novità, oggi, è proprio questa, direi. L’intera istituzione ecclesiale, in tutte le sue parti, alte o basse, deve assumere questa forma, deve colpire, direi quasi, con questa evidenza: non lavora anzitutto per sé, non protegge anzitutto se stessa, non serve prima di tutto i suoi. Se non ci riesce è persa. Perché esiste per questo. Se cambia l’ordine delle priorità e incomincia a modellare la sua missione unicamente in base alle esigenze della sua preservazione, la destinazione della grazia che le è affidata in favore di terzi si corrompe nell'uso privato delle sue ricchezze, consumate e godute per sé. La verità delle istituzioni ecclesiastiche è decisa dallo stato di salute del Corpo del Signore, che vive nella carne degli uomini e delle donne ai quali è destinata la promessa dell’amore di Dio. Se la Chiesa non riesce a garantire questa priorità, e la sua evidenza per tutti, può anche avere i libri in ordine, le idee in assetto, i comandamenti in canna e le reti rinforzate. Sarà come il sale sciocco.
Il secondo passaggio che, in questo documento, apre un orizzonte di senso compiuto per l’ispirazione conciliare di Lumen gentium va nella stessa direzione. Il documento è un passo decisivo verso la forma corale della Chiesa. La metafora che propongo per sintetizzare il punto va ben compresa. Non si tratta semplicemente di adattare una visione democratica e assembleare al reciproco ascolto nella Chiesa. La forma corale è quella nella quale ogni parte ha la sua funzione e la sua necessità, secondo precise regole che devono garantire l’armonia e la bellezza dell’insieme. Nel caso della Chiesa questa coralità delle parti, chiamate a restituire vitalità non burocratica all'armonia dell’insieme, comprende l’intero popolo di Dio. Il battesimo nell'unica fede è il fondamento comune di una partecipazione regolata – ma non sostituita – secondo i diversi ministeri. Il Sinodo dei Vescovi è chiamato ora a interpretare una «coralità» esemplare per la stessa forma della Chiesa.
La Chiesa è una corale. La sua sapienza del contrappunto deve essere esemplare. La lingua teologica, sollecitata da Francesco, sta imparando a interpretarla in chiave di 'sinodalità'. Sinodo vuol dire camminare insieme, fare la stessa via, muoversi nella stessa direzione. La teologia dovrà spiegarcela per bene la grammatica di questa sapienza corale. Nel momento attuale, la pratica di un contrappunto veramente armonico lascia piuttosto a desiderare, nella Chiesa. Troppi solisti autoesibizionisti. Di intonazione precaria, oltretutto.