Riflessioni sul caso Alfie/2. Mai proporzionalità fa rima con futilità
Caro direttore,
vorrei tornare su una questione che il caso del piccolo Alfie Evans ha proposto con drammatica intensità. Vorrei, cioè, cercare di fare chiarezza sul significato di futilità di una cura. La premessa è che il paziente non soffra e, soprattutto, che tali sofferenze non siano prolungate così da configurare un trattamento disumano. In quest’ultima circostanza non opera il concetto di futilità ma quello di proporzionalità e, soprattutto, gravosità di un trattamento.
Ora nel caso di Alfie non vi era alcuna evidenza di sofferenza: « It was uncertain », era incerto, dice l’Alta Corte di Giustizia britannica al paragrafo 55. Ed è a questo punto che il giudice inglese ha spostato l’attenzione su un secondo criterio, quello, appunto, della futilità del trattamento di ventilazione: « The continued provision of ventilation, in circumstances which I am persuaded is futile », mi sono persuaso che in queste circostanze la continua fornitura di ventilazione è futile, scrive il magistrato al paragrafo 48. Concetto, però, fallace e illusorio se legato a soli elementi statistici e probabilistici ancorati a un necessario miglioramento della salute del paziente. Tant’è che, in generale, la validità di un trattamento sanitario e, dunque, la sua non futilità viene valutata anche sulla base di elementi soggettivi propri del paziente, pur senza miglioramenti nella salute. Ma soprattutto il giudizio di futilità è del tutto inconferente se lo si applica all’accudimento e al conforto del paziente (« to care »). Il prendersi cura di una vita che volge al termine non può per definizione essere considerato «futile».
Ed era dentro questo scenario che occorreva considerare la correttezza o meno dell’interruzione della ventilazione al piccolo Alfie. In quelle decisioni, invece, il giudizio dei magistrati non ha colto alcuna distinzione tra futilità (possibile) di un intervento terapeutico e futilità (impossibile) di un trattamento di accompagnamento anche con un sostegno vitale, e ciò a causa di un pregiudizio valoriale profondo legato all’idea che la ventilazione artificiale fosse, in questo caso, un atto contrario alla dignità e alla autonomia del piccolo Alfie: « Compromises Alfie’s future dignity and fails to respect his autonomy », si legge infatti nel paragrafo 66 della decisione.
Quale concetto di dignità e autonomia hanno applicato i giudici britannici? Non certo quello richiamato da papa Francesco nel recente messaggio alla Pontificia Accademia della Vita e all’Associazione mondiale dei medici (indebitamente citato dagli stessi giudici inglesi a conforto della propria decisione), che è fermamente ancorato alla vicenda del paziente competente e capace («In questo percorso la persona malata riveste il ruolo principale»), bensì un concetto di dignità misurato su quei minori incapaci ad avere interazioni con gli altri, come accade negli stati vegetativi persistenti o nei gravi deficit cognitivi. In questi casi – sentenzia l’Alta Corte di giustizia inglese – anche in assenza di dolore o sofferenza, la continuazione dei sostegni vitali non va nel loro interesse ove inidoneo a fornire benefici generali (paragrafo 46).
L’humus su cui si radicano le decisioni inglesi hanno così prodotto la scelta sbagliata di staccare il ventilatore ad Alfie e accelerarne la morte. L’accompagnamento amorevole dei genitori, col loro respiro, la vicinanza carnale, accanto al loro piccolo fino al suo spegnersi, non era certamente futile, ma rappresentava il vero « best interest », miglior interesse, in quel breve tratto di vita che Alfie ancora avrebbe potuto percorrere senza sofferenze fisiche.
Presidente nazionale di Scienza & Vita