In ascolto della vita / 21. Mai nessuno tocchi Adamo
Una volta il Baalschem evocò Sammael, il signore dei demoni, per una cosa necessaria. Questi gli gridò: «Come osi evocarmi? Tre volte soltanto m’è avvenuto finora: nell’ora dell’albero, nell’ora del vitello, nell’ora della distruzione del tempio». Il Baalschem ordinò ai discepoli di scoprire le fronti. Allora Sammael vide su ogni fronte il segno dell’immagine secondo cui Dio crea l’uomo, e fece ciò che gli veniva richiesto. Ma prima di andarsene disse: «Figli del Dio vivente, permettetemi di stare qui con voi ancora un poco a contemplare le vostre fronti»
Martin Buber, Storie e leggende cassidiche
L’Ulisse di Omero e quello di Dante dicono, assieme, vocazione e destino dell’uomo occidentale. Richiamo invincibile della terra e della casa e, allo stesso tempo, bisogno altrettanto invincibile di ripartire verso nuovi mari sconosciuti. Il mare da solcare per tornare a casa, lo stesso mare che seduce e chiama per nuove partenze. Il secondo figlio che ritorna dal padre, sfinito dalla ricerca di una libertà slegata e sradicata, e il terzo figlio minore che nella notte, quando la festa per il ritorno del fratello prodigo è appena terminata, gli sussurra: «Senti; sai perché ti aspettavo questa sera? Prima che finisca la notte, parto. Tu mi hai aperto la strada» (André Gide). Neanche il calore e i beni della casa paterna ci riempiono il cuore se non vediamo, in lontananza, un porto, un mare, una strada, luoghi e segni che dicono un altrove; se più alto e a occidente non c’è un cielo per tentare di spiccare un volo diverso e più alto di quello che abbiamo imparato esercitandoci attorno al primo nido – solo il figlio maggiore meritocratico è felice radicato a terra, fermo e senza ali. Guardiamo il sole che sorge ogni mattina a est, e pensiamo all’origine, all’inizio.
Lo seguiamo poi mentre solca il cielo, e quando lo vediamo tramontare a occidente il cuore non riposa appagato: non ci basta l’inizio né l’eterno ritorno, vogliamo conoscere anche il destino, l’ultimo, vogliamo sapere dove abita la fine. Il fascino della fine è radice del nichilismo, di un tramonto che mangia la sua alba; ma è anche una vena dell’umanesimo biblico e della profezia migliore. «Presentate la vostra causa – dice YHWH – portate le vostre prove, dice il Signore di Giacobbe» (Isaia 41, 21). Dopo l’annuncio di una nuova grande consolazione per il popolo, e dopo averci raccontato la sua vocazione, il Secondo-Isaia, quel grande poeta-profeta anonimo, erede discepolo e continuatore del Primo Isaia, scende subito nell’agone della lotta. Siamo nell’esilio babilonese, il tempio è stato distrutto, il popolo è smarrito e circondato dagli dèi vincitori, imponenti e superbi come l’impero. Troppo forte era la tentazione dell’assimilazione culturale e cultuale, di essere risucchiati da quegli dèi alti e luccicanti, e così perdere religione, identità, anima. Come accade a tutti i deportati negli imperi, a tutti gli esuli e immigrati che oggi arrivano nel nostro impero, e cercano, finché possono, di ricordarsi e raccontare ai figli una storia diversa, di parlare e trasmettere la lingua della loro infanzia, di non dimenticare tutte le preghiere. Il secondo-Isaia inizia la sua attività profetica celebrando un processo (Rib). Come Giobbe. Ma qui la contesa non è tra l’uomo-Giobbe e Dio. Ora le parti in causa sono il Dio di Israele e gli dèi delle altre nazioni, in particolare quelli di Babilonia.
Il profeta prende sul serio gli altri dèi, e così li chiama ad addurre prove di essere vivi, come e di più di YHWH. E li sfida sul terreno della storia, l’unico terreno possibile nell’umanesimo biblico: «Narrate quali furono le cose passate, sicché noi possiamo riflettervi. Oppure fateci udire le cose future» (41,23). E ancora: «Presentino i loro testimoni e avranno ragione» (43,9). Ma quegli dèi stanno zitti, non rispondono: «Guardai ma non c’era nessuno, tra costoro nessuno era capace di consigliare» (41, 28). Ed è all’interno di questa contesa che si inserisce la sua polemica anti-idolatrica. Il profeta descrive il lavoro dei costruttori di idoli: «Il fabbro incoraggia l’orafo; chi leviga con il martello incoraggia chi batte l’incudine, dicendo della saldatura: "Va bene", e fissa l’idolo con chiodi perché non si muova» (41,6-7). E pochi capitoli dopo la polemica diventa ancora più penetrante e sarcastica: «Il fabbro lavora il ferro di una scure, lo forgia sulle braci e gli dà forma con martelli, lo rifinisce con braccio vigoroso; soffre persino la fame, la forza gli viene meno, non beve acqua ed è spossato» (44,12).
l suo discorso sugli idoli si articola su tre livelli. Alla base di questa particolare (e fiorente) economia troviamo i lavoratori, i fabbricanti di idoli. Lavorano incessantemente, si incoraggiano a vicenda, senza orari e soste, come tutti gli schiavi, come lavoravano gli ebrei in Egitto, al servizio perpetuo del faraone-dio. Oggi più di ieri, il mercato dei costruttori e consumatori di idoli lavora 24 ore al giorno, 7 giorni su 7. Poi ci sono gli adoratori degli idoli manufatti, coloro che si prostrano di fronte alle statue. E infine sopra gli idoli ci sono (forse) gli dèi, rappresentati dagli idoli, che sono i "segni" delle divinità straniere. Qualche volta nella Bibbia e nei profeti il secondo e il terzo livello vengono unificati, e la confutazione degli idoli diventa direttamente confutazione degli dèi: «A terra è Bel, rovesciato è Nebo; i loro idoli sono per animali e bestie, caricati come fardelli, un peso su un animale affaticato». (46,1). Idoli-dèi più "stupidi" degli asini che li portano in dorso.
Questa identificazione dèi-idoli è comune nei libri biblici, ma non è la vena più profonda della religione d’Israele e dei profeti. I filosofi e i poeti più grandi del mondo antico avevano capito che per negare gli dèi non bastava smascherare l’inutilità e la stoltezza delle statue. Socrate proclamava il suo a-teismo nelle statue di pietra per affermare il suo credo in un altro dio spirituale (il daimon). Ed era troppo semplice per Orazio ridicolizzare i costruttori di idoli: "Un tempo ero un tronco di fico, un legno buono a nulla, quando un falegname incerto se farne uno scanno o un Priapo, decise per il dio" (Sermones). Affermare, quindi, come fa anche il secondo-Isaia, che le statue non sono il vero dio non è sufficiente per dimostrare che YHWH è l’unico Dio vero: «Io, io sono il Signore, fuori di me non c’è salvatore» (43,11-13).
Ecco, allora, che qui si apre uno scenario nuovo e affascinante. Se il Secondo-Isaia avesse sempre pensato che non ci fosse alcuna differenza tra le statue degli dèi babilonesi e i gli dèi stessi, che quindi quelle divinità coincidessero con le loro rappresentazioni, non avrebbe istruito il processo alle nazioni. Avrebbe confutato quegli dèi stranieri con la stessa ironia con la quale aveva troppo facilmente ridicolizzato i pezzi di legno e di ferro. Ma sarebbe stato troppo semplice liquidare le divinità babilonesi svelando soltanto la stupidità dei costruttori e adoratori di feticci. E invece ha sentito il bisogno teologico di chiamare quegli dèi e i loro avvocati in una aula di tribunale, attribuendo loro la dignità di parte in causa, dare loro la possibilità di difendersi, di parlare, di portare testimoni e prove e dimostrare che erano dèi efficaci nella storia, capaci, come YHWH, di spiegare e dare un senso ai fatti passati e futuri. La verità di Dio è verità storica, il suo tribunale è il mondo, i suoi testimoni siamo noi: hic Rhodus, hic salta. Quegli dèi non riuscirono a parlare, non portarono prove, i loro testimoni e profeti furono incapaci di vincere contro il Secondo-Isaia e il suo Dio.
Ma quella disputa giuridica tra dèi diversi ci dice anche qualcos’altro di molto importante, e forse sorprendente: se il Dio biblico è un Dio dialogico, che discute, porta e chiede prove, allora non possiamo escludere che altri dèi diversi da quelli convincenti, possano dimostrare la loro non-falsità. L’umanesimo biblico, infatti, mentre afferma con forza che gli adoratori di idoli, che identificano il loro dio con i loro manufatti, sono banali e sciocchi, non può affermare che tutti i fedeli di dèi diversi da YHWH sono idolatri. E se e quando lo fa tradisce la sua parte migliore. Mosè per la prima riforma organizzativa del popolo nel deserto seguì i consigli di suo suocero Ietro (Es 18), e non lo avrebbe fatto se lo avesse considerato semplicemente un idolatra. I profeti hanno dedicato una quantità impressionante di parole alla polemica contro gli idoli anche perché intuivano che in quei culti diversi c’era qualcosa di più vero di banali sacrifici e offerte a manufatti ciechi e muti. Se avessero pensato che quei culti erano soltanto stupida adorazione di feticci, li avrebbero licenziati con poche parole. E invece in quella polemica c’era molto di più. Lì si stava svolgendo una pedagogia teologica e storica che porterà Israele, e poi il cristianesimo, a comprendere che negli dèi degli altri popoli si nascondevano anche volti di YHWH, il loro Dio vero che non potevano imprigionare ma condividere con tutta l’umanità.
Anche Israele ha conosciuto l’idolatria, e non solo quando ha costruito il vitello d’oro, ma tutte le volte che ha fatto di YHWH un possesso geloso, quando ha dimenticato che se Elohim aveva scelto il popolo ebraico non aveva dimenticato tutti gli altri, lasciandoli schiavi di idoli stupidi. Non basta proibire la rappresentazione iconica di Dio per impedire l’idolatria, come non basta costruire statue e portarle in processione per essere idolatri. Siamo invece certamente idolatri se continuiamo a pensare che tutti coloro che pronunciano la parola "Dio" e non appartengono alla nostra religione stanno parlando con un idolo, con se stessi, con il nulla. E siamo diversamente idolatri, ma sempre idolatri, se pensiamo che tutti coloro che non riescono a pronunciare Dio, o lo hanno dimenticato, sono soltanto stolti, e che quel loro "nulla" non possa essere abitato da una presenza vera dell’unico Dio di tutti. È nella Genesi che troviamo la più bella ragione della battaglia biblica contro le immagini di Dio. Sta in quell’Adam creato a "immagine e somiglianza" di Elohim. Non dobbiamo farci immagini di Dio perché sono tutte meno vere e belle di quella che vediamo ogni giorno riflessa sul volto di tutte le donne e di tutti uomini. È l’intangibile "segno di Adamo", impresso sulle nostre fronti, che può impedire ai feticci di sostituire la nostra immagine con la loro.
l.bruni@lumsa.it