Ambiente. Anche la moda dev’essere «sostenibile»
I dati mostrano che tra anidride carbonica, prelievi smodati di risorse idriche e scarichi, l’abbigliamento è diventato uno dei settori più tossici per la natura E i mercati vanno verso una continua crescita Il primo passo è tornare a dar valore a ciò che si indossa, uscendo dalla logica dell’acquisto solo perché «costa poco» trale, dove la coltivazione di cotone ha lasciato il segno. A forza di prelievi, il Lago di Aral, che pure vantava il nome di mare, è quasi scomparso. Il cotone è tristemente famoso anche per essere una delle coltivazioni a maggior uso di chimica e di sementi geneticamente modificate. Benché occupi solo il 2,4% di tutte le terre coltivabili, assorbe il 6% di tutti gli antiparassitari utilizzati in agricoltura, e addirittura il 16% degli insetticidi. Ogni anno si registrano migliaia di casi di intossicazione da pesticidi. E non è un mistero, purtroppo, che molti piccoli coltivatori arrivano a suicidarsi
Dopo il fast food la fast fashion, dove fast non sta per veloce ma frettoloso. Mangiare di fretta, vestirsi frettolosamente. Di qua panini, di là magliette: prodotti diversi per genere, uguali per strategia commerciale. Ambedue a basso prezzo, di bassa qualità, da rinnovare spesso. Merci aperte anche ai miseri, non per amore dei poveri, ma dei soldi. A volte vendite a basso prezzo moltiplicate per milioni di pezzi dalla breve durata possono dare guadagni più lusinghieri rispetto a pochi articoli a prezzi più elevati e fatti per durare. Ma ciò che può dimostrarsi miracoloso per gli affari può rivelarsi un disastro per il Creato.
Abbiamo la tendenza a considerare i capi di vestiario beni innocenti a basso o addirittura a nessun impatto ambientale. La realtà è che il settore della moda è uno dei più inquinanti. Basti dire che negli Stati Uniti si colloca al 5° posto per produzione di anidride carbonica, prima dei settori minerario, metallurgico e chimico. A livello mondiale produce 1,2 miliardi di tonnellate all’anno di gas serra, più di quelle emesse dal settore aereo e marittimo messi insieme. E non va meglio per l’acqua. Sempre su scala mondiale utilizza 79 miliardi di metri cubi di acqua all’anno (esclusa la coltivazione di cotone), il corrispettivo di 32 milioni di piscine olimpioniche. E il Boston Consulting Group avverte che agli attuali ritmi di crescita delle vendite, da qui al 2030 il consumo di acqua è destinato ad aumentare del 50%.
Il 62% di tutti i filati da cui si ottengono i tessuti sono di tipo sintetico. Con l’espansione dell’industria della moda la domanda di fibre sintetiche, e in particolare di poliestere, è quasi raddoppiata negli ultimi 15 anni. Il poliestere, come gli altri filati sintetici, proviene dal petrolio: perciò non deve sorprendere se a ogni tonnellata di tessuto corrispondono 17 tonnellate di anidride carbonica. Ma la Co2 è solo una parte del problema, le emissioni comprendono anche polveri sottili e acidi gassosi, dannosi per l’apparato respiratorio. Senza contare i solventi e le altre sostanze chimiche che finiscono nei corsi d’acqua anche a causa delle fasi successive di lavorazione, comprendenti lavaggio, colorazione, stampa. Si calcola che per portare il filato a vestito finito si impieghino fino a 8mila sostanze chimiche. Un quarto di tutti i prodotti chimici prodotti a livello mondiale sono usati dal settore dell’abbigliamento. E dove non ci sono adeguate regole di rispetto ambientale i fiumi si trasformano in cloache a cielo aperto. La Banca Mondiale afferma che il 20% dell’inquinamento industriale di acque dolci è dovuto al settore della moda. L a Co2 'emessa' da una camicia di poliestere è doppia rispetto a quella di una di cotone, ma il cotone vuole acqua. Servono da 7 a 29 tonnellate di acqua per produrre un chilo di capi di vestiario in cotone. Per una t-shirt l’acqua utilizzata si aggira attorno ai 2.700 litri, l’equivalente di quanta ne beve una persona in due anni e mezzo. Gran parte dell’acqua utilizzata nella fase di coltivazione non è piovana ma prelevata da fiumi e laghi. Circa il 73% del cotone mondiale è coltivato in zone aride che hanno bisogno di irrigazione, talvolta totale. Una di questa è l’Asia cen- per l’incapacità di ripagare i debiti contratti per comprare sementi e relative sostanze chimiche.
Dal 2000 al 2015 il consumo di abbigliamento è raddoppiato e potrebbe crescere di un altro 60% da qui al 2030, peraltro senza rispondere a bisogni reali ma per cedimento a condizionamenti sociali e pubblicitari. Nel corso di un’indagine condotta nel 2017 per conto di Greenpeace sui comportamenti di acquisto in vari Paesi del mondo, Italia compresa, oltre la metà degli intervistati ha ammesso di avere molto più vestiario di quello che serve. Quanto allo shopping, si fa per stare con gli amici, per seguire la moda, per vincere la noia. Sempre che non diventi un’ossessione compulsiva. In Italia il 24% dei consumatori afferma di consumare oltre le proprie capacità economiche, il 43% di nascondere i propri acquisti per paura di reazioni negative da parte dei familiari. Il 33% si sente depresso quando non può fare shopping e il 35% acquista online anche quando è a scuola o al lavoro. Ma la soddisfazione che si prova è sempre più fugace. In Italia solo il 67% dei consumatori dice di sentirsi soddisfatto dopo a- ver comprato. Per giunta due terzi di loro dicono che l’eccitazione svanisce di lì a due giorni. Ancora peggio, un terzo si sente più insoddisfatto di prima.
Mettere a rischio il futuro dei nostri figli per forme di consumo inutili, che ci lasciano addirittura insoddisfatti, è quanto di più folle possa esserci, per cui sono in tanti a sostenere che bisogna cambiare. Fra questi, Kirsten Brodde, coordinatrice della Campagna Detox di Greenpeace: «I marchi della moda devono puntare sulla qualità piuttosto che sulle quantità». Alcune imprese hanno preso sul serio la richiesta. Per spingere i suoi clienti a garantire lunga vita ai propri capi d’abbigliamento, Patagonia, azienda di vestiario statunitense, ha allestito un servizio di rammendo nonché di sostituzione bottoni e cerniere. E nella logica dell’empowerment ha organizzato online un corso gratuito di cucito, promettendo un kit a chiunque voglia effettuare riparazioni a domicilio. Altrove, invece, sono nati café repair dedicati ancora al cucito. Il recupero di una certa manualità, oltre a essere buona per l’ambiente e per il portafoglio, è buona anche per lo spirito. Creatività e autonomia accrescono autostima e soddisfazione personale. Ma anche senso di rispetto, perché ciò a cui si dedica tempo smette di essere oggetto e diventa cosa precisa e riconosciuta. Non più articoli che generano indifferenza ma beni che smuovono emozioni.
Comprare solo ciò che serve in forma duratura e riparabile è un passaggio fondamentale del vestire sostenibile. Ma dobbiamo aggiungerci anche la capacità di privilegiare l’usato sul nuovo. Che si attua in due modi. Il primo: prendendo in affitto invece che comprando, specie quando si tratta di vestiti per un’occasione (tipico è il caso del vestito per le nozze). Il secondo: scambiando con altri ciò che non sta più ma è ancora buono (tipico, in questo caso, l’abbigliamento per l’infanzia). Buttarlo sarebbe peccato mortale. Come minimo va messo nello speciale cassonetto dell’usato, ma ancora meglio è passarlo a chi garantisce di riusarlo direttamente. Le coppie cerchino di creare reti di scambio con altre famiglie, affinché lo stesso capo d’abbigliamento possa servire per più bambini. Si comincia intrecciando relazioni di cose, e si finisce tessendo relazioni d’amicizia.