Difficile chiamarle "moderne", perché quasi sempre si esprimono tutt’oggi in modi tipici di secoli ormai andati. E anche "nuove" non funziona, perché in certe parti del mondo sono tradizione ben radicata nei rapporti sociali e politici. Se definire un fenomeno ha senso, faremmo meglio a orientarci verso "schiavitù contemporanee", se non altro perché questo modo di dire ci sprona a ipotizzare soluzioni che siano al passo con la delicatezza del fenomeno (difficile persino da misurare: le stime vanno da 12 a 25 milioni di persone), ma anche con gli strumenti che la nostra epoca ci offre.
È naturale che la sensibilità diffusa si orienti soprattutto verso due aspetti: la schiavitù dei bambini e quella su cui grava il sospetto di una speculazione anche nostra. Non dobbiamo sentire alcuna colpa per questo riflesso naturale, anzi, per certi versi possiamo andarne orgogliosi. Giusto un anno fa l’Organizzazione internazionale del lavoro pubblicò un rapporto in cui, pur ricordando che ogni minuto c’è un bambino che, in qualche parte del mondo, si ferisce, si ammala o subisce un trauma a causa del lavoro, emergeva anche una buona notizia: nel periodo 2004-2008 è stato finalmente ridotto il numero dei minori dai 5 ai 17 anni impiegati in attività lavorative pericolose. Proprio nei giorni scorsi, inoltre, una grande multinazionale dell’industria alimentare ha deciso, prima nel settore, di monitorare il lavoro minorile nelle piantagioni africane di cacao, per stroncare ogni forma di abuso. Il che vuol dire che le battaglie contro le scarpe o i palloni cuciti dai bambini, per citarne solo alcune di quelle che fecero epoca, non erano dettate solo dalla cattiva coscienza (i palloni sono per noi, vergogniamoci) e, soprattutto, colpivano nel segno, andando a stimolare la responsabilità sociale delle grandi aziende coinvolte.
È venuto il momento, però, di adottare strumenti più raffinati. Non tutte le schiavitù odierne sono evidenti come quella di una bambino piegato in due a impastare mattoni. E non ha più molto senso continuare a pensare: compro quei mattoni? No. Quindi… Il settimanale economico
Business Week,
l’anno scorso, svolse un’approfondita inchiesta (sei mesi di lavoro in tre continenti) sull’industria del pesce, in particolare su quella della Thailandia, il secondo maggior fornitore degli Usa. Ne usciva questo quadro: migliaia di lavoratori-schiavi, arruolati in tutto il Sud-Est asiatico, erano impiegati sui pescherecci che setacciavano le acque al largo della Nuova Zelanda. Il pescato era poi gestito da broker Usa che lo rivendevano all’ingrosso a società con centinaia di ristoranti in ogni parte del mondo.
Anche in Europa. È solo un esempio tra i tanti, ma basta a confermare che anche quando discutiamo di schiavitù discutiamo di globalizzazione. Tutto, prima o poi, riguarda tutti. Bisogna quindi creare intorno al lavoro forzato dei minori e degli adulti un 'cordone sanitario' di consapevolezza ben più ampio della disponibilità ad agire di questo o quel Paese. È una sfida degna delle Nazioni Unite o, almeno, del G20: promuovere ovunque il rispetto dei diritti fondamentali a prescindere dalla quantità e direzione dei rapporti commerciali. Senza fare l’elenco dei "buoni" e dei "cattivi", senza intenti punitivi verso i Paesi in cui lo sfruttamento esasperato del lavoro è anche un modo perverso per aggirare la miseria generalizzata. Ma applicando un accorto sistema di incentivi economici (per l’applicazione di più corretti contratti di lavoro) e controlli che potrebbero nell’immediato dare ulteriore impulso alle attività delle aziende locali e all’occupazione, e in prospettiva aiutare lo sviluppo delle nazioni rimandando al loro posto, e cioè sui banchi di scuola, milioni di bambini e ragazzi. Potrà, questo nostro mondo sviluppato ma in crisi, trovare per una missione come questa i quattrini che tanto facilmente trova per rinnovare gli arsenali? Saprà, se non altro, capire quanto un investimento di quel genere gli potrebbe convenire? E fino a quando noi, cittadini di questo mondo, eviteremo le risposte giuste?