Sud America. Mafie, fake news e post-verità. I golpe hanno cambiato pelle
La modalità dei colpi di Stato in America Latina si adatta al Ventunesimo secolo: smilitarizzati, orientati da forze interne, alimentati dalla disinformazione via social. Nella foto gli scontri dello scorso gennaio al palazzo presidenziale di Brasilia, sede del governo, preso d’assalto dai sostenitori di Bolsonaro
Il termine affonda le proprie radici nella Francia del XVII secolo quando i coup d’État erano ordini con cui i sovrani esprimevano il proprio potere assoluto nei confronti di leggi ordinarie e tradizione. È stata, però, l’America Latina a far entrare i “golpe” nella contemporaneità e nella ricerca politologica. Oltre che nella memoria civile del nostro tempo. Proprio nel vasto spazio compreso tra il Rio Bravo e la Terra del Fuoco, ora la categoria sta cambiando pelle, come dimostrano i recenti esempi in Perù e Brasile. Golpe 2.0, golpe di nuova generazione, neo-golpe, non c’è una definizione univoca. Di certo, però, il mutamento è in atto dalla fine della Guerra fredda. E, ancora una volta, potrebbero diventare una delle cifre del Ventunesimo secolo globale. « In realtà, i golpe latinoamericani sono mutati radicalmente nel tempo. Non solo tra Ottocento e Novecento ma anche tra la prima e la seconda metà del secolo scorso», spiega Maria Rosaria Stabili, storica dell’Università Roma Tre, tra le pioniere degli studi latinoamericani in Italia.
Nel periodo immediatamente successivo all’indipendenza dalla Spagna, i Paesi nascenti sono stati dilaniati da continui rivolgimenti guidati da “caudillos” locali, forti sul proprio territorio ma non abbastanza da conquistare il potere centrale. Nel processo di costruzione delle strutture dello Stato-nazione avviatosi nella seconda metà dell’Ottocento e con la professionalizzazione delle forze armate, «esse sono diventate soggetti portatori di progetti di società e Stato da imporre con la forza e difendere con la repressione. Poi con l’irruzione della Guerra fredda nel Continente – prosegue l’accademica – si sono sentite investite dal ruolo di proteggere i rispettivi Paesi non soltanto dai nemici esterni, ma soprattutto da quelli “interni”, in omaggio alla Dottrina della sicurezza nazionale». Sono stati questi ultimi, anche grazie alla densa produzione letteraria e cinematografica, a plasmare l’immaginario collettivo: alle divise verde oliva e alla loro caccia feroce dei comunisti, reali o presunti. L’ombra di Washington si è allungata sulla regione fino agli albori del nuovo secolo quando, a partire dalle transizioni degli anni Ottanta, i regimi militari hanno ceduto il passo alle democrazie, seppur ancora incerte e fragili. Poi, dall’11 settembre 2001, l’America Latina ha smesso di essere una priorità per trasformarsi, agli occhi degli Usa ma anche, spesso, del resto dell’Occidente, in una sconosciuta. I sussulti a Sud del Rio Bravo, nel frattempo, non sono scomparsi. Dalla sollevazione indigena in Ecuador del 2000 all’assalto ai palazzi delle istituzioni a Brasilia dello scorso gennaio, passando al colpo di Stato contro Jean-Bertrand Aristide ad Haiti nel 2004 e quello nei confronti di Manuel Zelaya in Honduras, rispettivamente nel 2004 e nel 2009, se ne contano almeno dodici. A questi si deve aggiungere, poi, l’impiego sempre più disinvolto dell’impeachment parlamentare per rimuovere i presidenti, come nel caso della brasiliana Dilma Rousseff e del paraguayano Fernando Lugo.
Esempi molto diversi fra loro per origine, modalità e risultati. Alcuni si esauriscono in una manciata di ore, altri rappresentano cesure permanenti dell’ordine costituzionale. Il minimo comune denominatore, tuttavia, è la non assimilabilità al passato recente. Si tratta di fenomeni nuovi. E, alcune volte, innovativi. I quali non possono essere letti con le categorie del secolo scorso. Due i tratti distintivi dei “golpe” del Ventunesimo secolo latinoamericano. Primo, i rovesciamenti si smilitarizzano. Le forze armate tornano nelle caserme rinunciando al ruolo di “purificatori” dello Stato e della società. «Gli scontri sono interni all’arena delle istituzioni politiche e mettono in luce in luce la difficoltà del centro di entrare in relazione con le periferie », sottolinea Massimo De Giuseppe, storico della Università Iulm e esperto di questioni latinoamericane.
Alcune volte si tratta di veri e propri cortocircuiti come il maldestro intento dell’ex presidente peruviano Pedro Castillo di “licenziare” il Parlamento, lo scorso 7 dicembre. « È sufficiente comparare la mossa di Castillo con quella analoga compiuta da Fujimori nel 1992 per coglierne l’inconsistenza. Quest’ultima rientra nei golpe classici, sostenuti e promossi dall’esercito. Il sussulto di Castillo nasce e muore all’interno dello scontro tra i diversi poteri costituiti », aggiunge l’esperto. Nella regione, la difficoltà di trovare il baricentro dell’architettura istituzionale, lo scollamento tra popolo ed élite e, di conseguenza, la scarsa legittimazione delle amministrazioni nazionali e provinciali emergono in modo particolarmente drammatico. Sono questioni, però, che con accenti differenti caratterizzano la politica dell’attuale millennio ad ogni latitudine.
Al contempo, ovunque, in America Latina si assiste a una de-istituzionalizzazione della violenza. Lo Stato non ha più un ruolo di primo piano nella repressione illegittima. Ad esercitarla sono una molteplicità di organizzazioni criminali che, certo, hanno mantenuto un legame stretto con la politica, i rapporti di forza sono, però, invertiti, tanto che, in alcuni casi, come in Messico, si parla di cattura di pezzi di istituzioni da parte delle mafie. Secondo, i colpi di Stato nascono da dinamiche interne, il ruolo di Washington – tranne forse che per alcuni aspetti, nelle vicende haitiana e honduregna e nella prima sommossa contro Hugo Chávez – è marginale. «Se, durante la Guerra fredda, erano le grandi potenze ad influenzare, in modo più o meno deciso, i Paesi “satelliti”, ora le pressioni sembrano venire da reti sotterranee di tipo transnazionale», prosegue De Giuseppe. Il quasi simultaneo irrompere sulla scena politica di Donald Trump, Jair Bolsonaro, Viktor Orbán, Nigel Farage o Marine Le Pen sarebbe l’effetto di questi movimenti che trovano nella Rete e nei social i loro canali di collegamento, irradiazione e mobilitazione. Fino alle inquietanti somiglianze tra l’attacco a Capitol Hill e quello alla piazza dei Tre poteri di Brasilia a due anni di distanza.
In questo caso, l’elemento “virtuale” è stato determinante. La folla bolsonarista che ha razziato le sedi di presidenza, Parlamento e Corte Suprema ha trascorso gli ultimi anni in una bolla di propaganda, fake- news e manipolazione. La post-verità è stata così potente da far tentare loro una battaglia persa in partenza. « L’assalto ai palazzi delle istituzioni brasiliane, in realtà, è stata un’azione di destabilizzazione meramente simbolica – sottolinea Stabili –. L’esito politico era secondario rispetto alla dimensione comunicativa». Un “fakegolpe”, quasi. L’esempio più emblematico, forse, di una nuova generazione di rivolgimenti politici di cui l’America Latina può di nuovo diventare laboratorio globale. Dalla regione potrebbe, però, arrivare anche l’antidoto per neutralizzarle. Il crescente protagonismo dei movimenti popolari che, oltre la retorica, si fanno carico delle istanze degli esclusi dal sistema e l’irrompere di nuove sensibilità portate avanti dal mondo giovanile, in primis quella ambientale, offrono contenuti concreti in tempi di “politica 2.0”.