Opinioni

Madri morte al termine della gravidanza. L'imprevisto e una sanità che deve restare umana

Carlo Bellieni sabato 2 gennaio 2016
Grande risalto hanno avuto sui media in questi giorni i casi di morte inaspettata di donne al termine della gravidanza, in importanti ospedali italiani. Eventi evitabili? Comunque, autentiche tragedie. Che ci rimandano a un concetto divenuto oggi quasi un tabù: non tutto nella vita può essere sotto controllo. Per errori, fatalità, mancanza di prevenzione, le tragedie continuano ad accadere e la mentalità post-moderna non insegna a farci i conti se non a posteriori. La gravidanza oggi è diventata una bella sconosciuta: più se ne parla sui giornali, più si lega al concetto errato che sia uno dei tanti eventi della vita, uno fra i tanti che "fa status" ma non deve cambiare la vita, una condizione in apparenza garantita da una pletora di esami e indagini prenatali, e che soprattutto è vietato ipotizzare finisca in maniera imprevista. Purtroppo i fatti di questi giorni ci ricordano che l’imprevisto è in agguato, che la gravidanza non è una parentesi tra altri eventi. Eppure questo non dovrebbe stupirci. La sanità italiana ha un primato mondiale positivo di basse morti fetali e materne. E tuttavia queste persistono, perché in medicina il rischio zero non esiste. Un’indagine appena uscita sul Journal of Epidemiology and Community Health riporta che, pur con un notevole declino dal 2002 al 2010, in Europa il tasso di morti fetali oscilla oggi tra l’1,5 e il 4,1 per mille nati, con l’Italia che si assesta in terza posizione al 2,4 per mille. E i nostri dati di morti materne sono addirittura i migliori al mondo, con 4 episodi ogni 100mila gravidanze (attenzione, però: si tratta pur sempre di 20 mamme morte ogni anno). Lo zero per cento non è raggiunto in nessuna parte al mondo. Colpe? Possono esserci e vanno appurate, ma va anche ricordato che la vita e la gravidanza non sono la passeggiata che raccontano le pubblicità televisive. Ecco allora due scenari. Il primo è quello di una gravidanza sconosciuta ai più ed esaltata dalla comunicazione come diritto assoluto (quando e come io la decido). Per conseguenza, di fronte a un diritto assoluto qualunque imprevisto (un ricovero inatteso, o una nascita prematura) vengono vissuti non come un evento avverso ma come la lesione di un diritto, come un’ingiustizia, una fonte di recriminazione. E della gravidanza paradossalmente si conosce sempre meno, dato che se ne parla solo quando se ne ricercano applicazioni estreme. Pochi hanno il coraggio di dire, per esempio, che oggi la si vive spesso in modo sbagliato, ipermedicalizzandola, e al tempo stesso sottovalutando fattori di rischio come il fumo o l’aumento dell’età materna (oggi sempre più spesso oltre i trent’anni). Il secondo scenario è che bisogna certamente intervenire in campo sanitario, ma non basta farlo sotto la pressione delle emergenze: occorre agire finalmente in profondità, de-burocratizzando gli ospedali che – divenuti aziende – rischiano di trasformarsi irreversibilmente in luoghi in cui non si guarda più il malato con l’attenzione che gli spetta ma lo si riduce a "utente", a vantaggio dell’ottimizzazione dei tempi e dei costi, con esami spesso troppo routinari. L’errore deve essere prevenuto, e sanzionato quando serve. Al contempo va però creata una cultura sanitaria che non sia solo la lista dei ticket, delle Asl da accorpare e dei punti parto da ridurre, ma racconti al popolo la salute, la gravidanza, la nascita, faccia crescere nei luoghi dove si vive un’alleanza attiva tra medico e paziente, combatta malattia e morte, ormai innominabili in una cultura che si trova a parlarne solo di fronte al dramma.