Ma sull’Iva si può, eccome. Orientare (bene) il futuro con il fisco
Il dibattito sulla prossima Legge di Bilancio si fa serrato e tra le proposte ventilate dal Tesoro emerge l’idea di un aumento selettivo dell’Iva (ad esempio differenziando tra beni di lusso e altri prodotti) per trovare risorse in grado di finanziare interventi sui punti cardine del «contratto di governo» tra M5s e Lega.
La differenziazione dell’Iva è un’opportunità di fondamentale importanza perché già oggi le norme europee consentono flessibilità rispetto alle aliquote da applicare. Le decisioni sulle aliquote rappresentano uno spazio di manovra nazionale molto utile se praticato con scelte motivate e coerenti con le regole del mercato interno. Possiamo, infatti, fare qualcosa di molto più ambizioso rispetto alla distinzione tra beni di lusso e altri prodotti e servizi.
In un’economia globalmente integrata uno dei pochissimi modi in cui si può difendere la sostenibilità ambientale e sociale è proprio attraverso le imposte sui consumi realizzando manovre "a saldo zero" per la finanza pubblica (o a saldo positivo se con esse si vogliono finanziare altri obiettivi di spesa come nelle intenzioni del Governo Conte) con aliquote differenziali per i prodotti in base alla loro sostenibilità sociale e ambientale. Qualunque lodevole politica di difesa di ambiente e lavoro dal lato dell’offerta in un sistema siffatto finisce, infatti, molto spesso per aumentare i costi di produzione delle nostre imprese determinando l’effetto paradossale di renderle meno competitive rispetto al resto del mondo e ancora più esposte al dumping sociale e ambientale. Usare le imposte sui consumi invece per premiare le filiere più sostenibili vuol dire andare nella direzione giusta avendo a mente un obiettivo universalmente riconosciuto (la tutela della salute, il contrasto al riscaldamento climatico e all’inquinamento, la dignità del lavoro) ed evitando che il sistema Italia che lavora quasi sempre con regole più severe venga penalizzato rispetto ai concorrenti più spregiudicati.
Non si tratta di partire da zero perché questa strategia è stata già avviata. Ad esempio in diversi Paesi europei l’Iva è già stata articolata sulla base di obiettivi ambientali e anche il nostro Paese è intervenuto in diversi settori, dall’edilizia all’agricoltura ai generi alimentari, per rivedere le aliquote sulla base di obiettivi sociali e di emersione del lavoro nero. Proprio in questi giorni il Governo francese sta discutendo di come costruire un’imposta a tasso zero sulla plastica con aliquote più alte per quella non riciclata e più basse per quella riciclata. In Svezia è stata fortemente ridotta la tassazione sulla riparazione di beni. L’obiettivo è spingere l’economia circolare, ma anche premiare attività economiche ad alta intensità di lavoro domestico.
Una scelta di questo tipo si motiva con il vantaggio duplice di ridurre il consumo di materiali, e quindi l’inquinamento, la produzione di rifiuti, e al contempo di aiutare gli investimenti da parte di imprese tradizionali e nuove nella riparazione di una vasta gamma di beni con beneficio occupazionale ed economico. D’altronde non si comprende perché debbano pagare la stessa aliquota Iva un prodotto che proviene dal riciclo e uno nuovo che proviene da Paesi lontani, che ha percorso migliaia di chilometri e magari in fabbriche dove sono ben diverse dai nostri standard le condizioni dei lavoratori e l’inquinamento ambientale prodotto. La premialità sull’economia circolare stimolerebbe innovazione tecnologica e leadership in un settore cruciale nel futuro dove la competitività si realizza con lo sviluppo di tecnologie che risparmiano costi di materia prima.
Un altro campo di grande interesse a cui guardare in questa prospettiva è quello alimentare e agricolo. I prodotti provenienti dall’agricoltura biologica e quelli da filiera locale, certificata, dovrebbero vedere premiata nell’aliquota i benefici che producono in termini ambientali e di salute. Una scelta di questo tipo aiuterebbe le aree interne del Paese e premierebbe le produzioni di qualità e locali. Un altro esempio potrebbe essere la premialità fiscale sul pellet di legno, utilizzato negli impianti di riscaldamento, se proveniente da filiere territoriali certificate, mentre oggi viene in larga parte importato in un Paese in cui i boschi continuano a crescere. Premiando il valore dei prodotti si dà valore al lavoro in agricoltura, aiutando le nostre imprese a competere sul piano della sostenibilità ambientale e non sul piano della quantità e del dumping sociale o delle monocolture, che sta mettendo in ginocchio gli agricoltori di entrambe le sponde del Mediterraneo. Cominciare a porre in atto una strategia di questo tipo (annunciando che si continuerà in questa direzione) avrebbe anche il vantaggio di orientare le aspettative delle imprese, gli investimenti di prodotto, di processo e di formazione dei lavoratori.
Nella direzione che l’Europa e l’Ocse ci chiedono da tempo di prendere: spostare il peso della fiscalità dal lavoro al consumo delle risorse. Si potrebbe dunque, a partire dall’Iva, aprire una discussione su una riforma della fiscalità capace di accompagnare una innovazione diffusa del tessuto imprenditoriale italiano attraverso la chiave dell’economia circolare e della decarbonizzazione, che oggi sono al centro degli obiettivi delle politiche europee al 2030.
Un Paese come l’Italia avrebbe tutte le ragioni di interesse a scegliere questa direzione di cambiamento (guidando e proponendo la stessa strategia anche a livello Ue), perché potrebbe rafforzare in questo modo la competitività del proprio sistema di imprese, legando ancora di più il marchio del 'made in Italy' a un’idea di qualità che include effetti sulla salute, sostenibilità ambientale e sociale dei prodotti. Il rapporto Symbola ha identificato un polmone del vantaggio competitivo del Paese in imprese «coesive e competitive » che coniugano innovazione, sostenibilità sociale ed ambientale. La riforma delle imposte sui consumi 'a saldo zero' per le finanze pubbliche in questa direzione darebbe un segnale molto preciso invitando il nostro sistema produttivo a non puntare su fattori come insostenibilità ambientale e precarizzazione sul lavoro dove c’è sempre un concorrente da qualche parte del mondo che può fare meglio (cioè peggio) di noi.
Leonardo Becchetti Università di Roma Tor VergataEdoardo Zanchini vicepresidente di Legambiente