In una formula la realtà che c'inchioda. Ma sovrano è questo debito
Lo sa bene il titolare dell’Economia, la spada di Damocle alzata sul collo dell’Italia non sono i vincoli europei, ma la trappola del debito in cui ci siamo incastrati. Giovanni Tria l’avrà probabilmente ribadito ieri al vicepremier e capo della Lega, Matteo Salvini. E l’avrà rispiegato al Consiglio dei ministri mentre preparava la risposta da recapitare entro oggi a Bruxelles: il problema non è sforare più o meno il 3% nel rapporto tra deficit e Pil, limite che la Commissione ci lascerebbe anche superare qualora “in tendenza” il nostro debito pubblico fosse destinato a scendere. Il vero dilemma è trovare qualcuno – piccoli e grandi investitori, Bot people e istituzioni finanziarie estere: i “mercati”, insomma – disposto a prestarci denaro a un tasso di interesse sostenibile.
Il termometro di questa fiducia – ormai lo sappiamo tutti – si chiama spread. Se è alto, vuol dire che i mercati si fidano di meno della nostra solvibilità, reclamando di conseguenza interessi maggiori sul denaro che prestano al Tesoro sottoscrivendo titoli di Stato. In questo momento, con un differenziale tra Btp e Bund intorno ai 280 punti, risultiamo tra i Paesi più rischiosi dell’Eurozona. Peggio di noi solo la Grecia (che a breve, però, potrebbe essere considerato un Paese più “sicuro” dell’Italia).
Il ministro qualche giorno fa è stato ancora più esplicito: «È inutile pensare di fare 2 o 3 miliardi in più di deficit se poi dobbiamo pagarne 2 o 3 in più di interessi». Il gioco, cioè, non vale la candela. Non lo vale per una formuletta matematica che Tria ben conosce, un calcolo rapido usato all’occorrenza dagli economisti, non un parametro di Maastricht, che ci richiama alle nostre responsabilità se vogliamo davvero tornare a crescere liberandoci dal gioco reale degli interessi più che da quello contabile dei riferimenti europei. La formula prêt-à-porter spiega come la dinamica del debito pubblico di un Paese dipenda anche dalla differenza tra il tasso di interesse medio pagato sul debito e il tasso di crescita nominale (inclusa l’inflazione, quindi) del Pil. Se il Pil nominale supera gli interessi, allora a parità di avanzo primario il debito scende automaticamente, perché la crescita produce ricchezza sufficiente a pagare le “rate”. Così accade in tutti i principali Paesi dell’Eurozona. L’unica eccezione è purtroppo l’Italia: gli interessi sul debito ci costano 178 milioni al giorno, circa 65 miliardi all’anno. Di questo passo diventeranno 76 miliardi nel 2020, il 3,6% del Pil, e sarebbero stati molti di più se l’euro e il Quantitative easing della Bce non avessero limitato l’impatto del nostro gigantesco debito. Ecco perché fare più deficit – e quindi più debito – ci condanna all’impossibilità di liberare risorse per gli investimenti.
I conti in ordine servono cioè a crescere e a garantire la stabilità sociale. Non sono un vincolo, un’imposizione, un diktat dei tecnocrati: sono l’assetto che consente a una macchina di scaricare a terra la potenza senza sprecarla per contrastare il mostruoso attrito del debito. Sovrano, invece, se non lo governiamo, è solo il debito.
Se poi usiamo la flessibilità già abbondantemente concessa dall’Europa per finanziare la spesa corrente – tali sono le risorse destinate al Reddito di cittadinanza e a Quota 100 – e non gli investimenti compiamo, certo, una legittima scelta di politica economica, ma della quale dobbiamo anche rispondere a chi ci presta il denaro per finanziarla ovvero ai piccoli e grandi risparmiatori, italiani ed esteri di cui sopra. Consapevoli per altro che ci sono 16 miliardi di investimenti “bloccati” in 200 cantieri lungo lo Stivale, soprattutto al Sud, e che, come ha segnalato la Corte dei Conti, nel Decreto Crescita l’esecutivo giallo-verde prevede di “prelevare” 650 milioni dalla bollette di luce e gas per finanziare la continuità aziendale di Alitalia, tornata a gravare in qualità di azienda di Stato sulle spalle dei contribuenti...
Detto in altri termini: meglio spendere bene almeno i soldi che ci sono prima di chiederne altri ai mercati aumentando ulteriormente il debito. Non ce lo impone l’Europa, lo esigono gli italiani. Per evitare anzitutto che una crisi finanziaria ci travolga bruciando redditi e patrimoni. E attenzione che le crisi, ricorda la legge non scritta di Rudi Dornbusch, prendono molto più tempo a venire di quello che si pensi, quando arrivano, però, sono molto più veloci di quello che si sarebbe immaginato. Nella situazione in cui siamo, il conto alla rovescia sembrerebbe già iniziato. E la prossima Manovra d’autunno sarà in tal senso decisiva. Ma tutto questo, il ministro Tria già lo sa.