Fotografia dell’Istat e scelte da fare. Ma si veda e curi la ferita del sud
Bisogna dare atto all’Istat di un sano coraggio intellettuale nel momento in cui ha parlato nei giorni scorsi di «stringente attualità della questione meridionale». A circa un secolo e mezzo da quando le “Lettere meridionali” di Pasquale Villari, le inchieste di Leopoldo Franchetti e gli scritti di Giustino Fortunato svelarono all’opinione pubblica lo stato di miseria e sottosviluppo del Sud, un breve rapporto moderno e ben “scolpito” ci dice che l’Italia è ancora drammaticamente spaccata in due. Per molti anni il tema non è stato al centro del palcoscenico a favore di altri attori di spicco come la globalizzazione e la turbofinanza, ma il divario alle soglie del Millennio torna violentemente alla ribalta sospinto dalla forza dei numeri. Persino ChatGpt, l’intelligenza artificiale di moda nelle ultime settimane – indizio, per alcuni, del senso comune della websfera – risponde che la questione meridionale in Italia « persiste» e il divario tra Nord e Sud si è «allargato». Che stiamo aspettando?
Gli ultimi dati dell’Istat rilanciano un allarme su un gap purtroppo consolidato e che, è bene dirlo subito, rischia di ampliarsi ancora se si procederà come panzer con l’autonomia differenziata, provocando frammentazione e perdita di risorse dal Sud verso il Nord, e se non si farà attenzione nel processo di rimodulazione con l’Europa del Pnrr che vincola il 40% degli interventi a favore del Meridione. I dieci punti sui quali l’Istat si focalizza dovrebbero essere letti con molta cura dalla classe politica e dal governo, anche perché il risultato finale è che il Sud si sta spopolando: nell’ultimo decennio la popolazione è calata di 642 mila unità contro una crescita di 335 mila nel Centro Nord.
Riprende tristemente anche l’emigrazione interna che negli ultimi decenni si era interrotta dopo il boom del Dopoguerra: riguarda i giovani, tra i 25 e i 34 anni, che nel 2020 hanno lasciato il Sud a ritmi inquietanti. L’elenco dei gap comincia con il Pil pro capite: da vent’anni è circa la metà, 5558%, di quello del Centro-Nord: 18mila euro contro 33mila euro. Segue la carenza di lavoro perché l’intero Mezzogiorno, tranne rare eccezioni, presenta tassi di occupazione giovanili molto inferiori alla media. Il livello scolarizzazione fa pensare ai film in bianco e nero del neorealismo: nel 2020 il 32,8% dei meridionali in età adulta aveva concluso al più la terza media, al Centro-Nord la percentuale scende al 24,5 per cento. Le competenze degli studenti sono peggiori del resto d’Italia: ad esempio, quelle matematiche riscontrate al termine delle scuole superiori, vengono giudicate «molto deboli» al Sud nel 42,7% dei casi, mentre nell’intera Italia il tasso di attesta al 28,3%.
All’appello di questo elenco di risultati preoccupanti non manca la digitalizzazione: il 60% dei residenti nel Meridione ha opportunità ridotte di accesso alla banda larga. Anche la dotazione dei servizi conferma il divario. L’obsolescenza delle reti idriche segna tre quarti delle Province del Mezzogiorno (nel Centro-Nord solo un quarto). La densità della rete ferroviaria è nettamente più bassa, a partire dall’alta velocità. I servizi per l’infanzia, cruciali per la crescita demografica e per l’occupabilità delle donne, mostrano un gap rilevante: due terzi dei bambini sotto i 3 anni vive in contesti inferiori agli standard nazionali. Ritardi e inefficienze si cumulano nel Sud anche rispetto alla sanità e forte è il fenomeno dell’”emigrazione sanitaria” (i ricoveri extra regionali sono il 9,6% di quelli interni). La questione c’è e bisogna risolverla invece di peggiorare il problema.
Con soluzioni che, come continua a ricordare il direttore generale della Svimez, Luca Bianchi, rimedino ai danni consolidati dalle politiche di austerità degli anni della crisi 2008-2012 e invertano la tendenza di «bassa qualità della spesa» che ha segnato gli interventi ordinari e con fondi europei. Fattori responsabili del «divario sociale» che affligge il Sud e che chiamano in causa sia la classe dirigente centrale sia, senza sconti e alibi, quella locale. Il Mezzogiorno non è la zavorra dell’Italia, e mostra tenace vitalità nonostante le condizioni di svantaggio che ancora lo opprimono, ma soprattutto è parte essenziale del “motore” della ripartenza dell’intero sistema Paese.